QUANDO il freddo è pungente come in queste giornate (i giorni della merla), i cappelletti tornano in tavola, quelli “carnei” e rigorosamente in brodo, da non confondersi con altri ripieni o altre salse o ragù o intingoli vari. Un piatto tipico della mensa natalizia e identitario da nord a sud dell’Umbria, oltre che uno dei monumenti gastronomici italiani che hanno fatto la storia e ancora oggi narrano la nostra civiltà a tavola. Vivere un piatto, masticare un pensiero, analizzare le possibilità a cui la materia prima è esposta. Insieme a coordinate geografiche, riferimenti storico-culturali, condivisione di saperi che prendono gusto. E sedimentare con una ricetta anche una propria dimensione personale autentica, perché figlia del territorio nel quale è nata e opera.


SPESSO è un ricordo a ispirare la più intima materia interiore. Altre volte ancora è un aroma, o un ingrediente e con lui la necessità di recuperare il passato. E subentra anche il desiderio di esercitare ancora una volta la propria abilità tecnica, con un’immancabile dose di sé che non sfugge alla densa mescolanza creativa. E nel cappelletto tutto si gioca sulla sfoglia, che deve arrivare alla quasi trasparenza, sul ripieno, la profumata farcia carnea la cui ricetta varia da famiglia a famiglia, e sul brodo, caldo e avvolgente, anche lui con le sue varianti.


PARTIAMO DALLA SFOGLIA, lavorata a mano naturalmente: uova, farina e olio di gomito. Oltre ovviamente gli strumenti adatti: una tavola di legno, chiamata da noi spianatoia, e un mattarello possibilmente lungo, oltre che una rotella tagliapasta in mancanza della quale si usava e si usa un “bicchierino” del diametro adatto. La tavola di legno andrà usata esclusivamente per fare la sfoglia e niente altro, ché il legno assorbe gli odori e li rimanda in uno straordinario quanto imprevedibile mesclum.


CAPPELLETTO, QUASI UN RITUALE ZEN nella geometria del lavoro di braccia che disegnano un tondo perfetto. Semplici, atavici gesti, una tecnica precisa per un risultato ottimale. L’unità di misura è l’uovo, un tempo di grandezza variabile che rendeva variabile anche la dose di farina utilizzata. Oggi con uova di pezzatura media di 53-63 g si consigliano 100 g di farina 0, perché esistono anche farine calibrate più o meno integrali con un diverso grado di assorbenza. L’olio di gomito ce ne vuole molto e di buona qualità: cioè impastare è tecnica di precisione e forza. La sfoglia tirata a mano si fa apprezzare per la giusta consistenza, l’elasticità, la rugosità, la trasparenza in controluce. L’impasto lavorato, “maccato” con le mani (da "maccare" da cui deriva la parola maccheroni), deve poi riposare coperto e il tempo dipende dalla farina usata, dal suo contenuto di glutine, ma è sufficiente controllare il panetto che prima era poroso. Ora, dopo il riposino, apparirà liscio e compatto.


...E QUASI UNA DANZA SUFI. Il mattarello deve essere lungo abbastanza e arrotondato per stendere e poi arrotolare la sfoglia. Arrotolata e tirata per renderla più sottile e poi stesa di nuovo sulla spianatoia, e girata e ancora girata di un ottavo di giro ogni volta per avere un disco rotondo ampio e perfetto. Quasi una danza Sufi. La sfoglia deve rimanere umida per poter essere utilizzata nella pasta ripiena, altrimenti i nostri manufatti non potranno essere ben chiusi e sigillati. In genere la sfoglia ultimata si stendeva su un grande canovaccio bianco e si controllava: più asciutta per le paste lunghe-tagliatelle, taglierini, tagliolini, pappardelle- più umida per ravioli, cappelletti, tortelli, per permetterne poi la chiusura. Per i cappelletti la sfoglia va tagliata in piccoli rotondi con il tagliapasta, in origine smerlato, e con gli scarti ottenuti nascevano ottimi “maltagliati” o “quadrucci” per i legumi. In primis con i nostri ceci, bianchi e neri.


IL RIPIENO IN Umbria è un impasto di carne, in genere maiale, vitella, petto di pollo a cui si aggiunge parmigiano grattugiato e uova per aggiustarne la morbidezza, e come aroma un poco di noce moscata grattugiata, antico retaggio delle corti rinascimentali quando i manufatti di pasta farcita rallegravano le mense aristocratiche. Alcuni, invece della noce moscata aggiungono la scorza grattugiata di limone. In alcune ricette si aggiunge prosciutto crudo o mortadella tritati.


UN MAGICO DIALOGO TRA L’IMPASTO E LA MANO, questo è l’ottimo cappelletto. Aggiungi la genuinità della semplice, importante materia prima-uova fresche e ottima farina-, la manifattura perfetta della sfoglia nel giusto spessore, la precisione del taglio, il posizionamento di quella profumata nocciola di ripieno, e poi la sua veloce chiusura grazie a uno splendido lavoro d’equipe. E i nostri cappelletti dovrebbero essere pingui, avere la “testa grossa”, cioè belli pieni di farcitura. Senza contare che se alcuni di questi si fossero aperti nel brodo... tanto meglio, avrebbero regalato quel sapore e quel macinato odoroso di carne a tutto il brodo e al piatto. I cappelletti, tanti, devono depositarsi pesanti sul fondo della scodella e rimanere così immersi nell’ottimo brodo che verrà cosparso di parmigiano. In alcune zone dell’Umbria a Natale questo piatto si cosparge di tartufo nero, il melanosporum, che raggiunge l’acme del suo profumo proprio a dicembre.


BRODO DI PRIMA, DI SECONDA, TERZA, PERSINO DI QUARTA. In Emilia Romagna, erano vari i brodi utilizzati : “brodo di prima” prevedeva l’utilizzo del solo cappone; di seconda con manzo e cappone o manzo e gallina; di terza con cappone, manzo e costine di maiale; e di quarta con pollo, manzo, costine e bue grasso. Ed è ovvio che la qualità del brodo contribuiva notevolmente al prodotto finale. In Umbria e a Perugia un ottimo brodo è ottenuto con gli elementi classici: manzo e/o gallina, ma a Natale i cappelletti andrebbero cotti e serviti nel brodo di cappone, per poi gustarne la carne lessata.


UN TEMPO i cappelletti non venivano affatto surgelati, ma lasciati asciugare all’aria. Controllavo, su ordine della mamma, ché si asciugassero bene e li contavo, ché ad ognuno toccasse la sua porzione abbondante di cappelletti che sarebbero stati consumati da lì a due giorni, perché il 24 era la vigilia di natale e quindi in tavola era “cibo di magro” con pasta dolce e baccalà. Creavo così lunghe file regolari di "soldatini" che facevano pregustare, rubandone subito qualcuno in bocca, il momento in cui, cotti e ben conditi, sarebbero diventati bocconcini di delizia.


TANTE NOTIZIE imprecise sui cappelletti, da cibo povero e familiare a piatto di ottocentesca invenzione. Non certo un piatto “povero” in quanto già la preparazione della sfoglia a base di uova e la farcia carnea presupponevano il suo utilizzo nei giorni di festa e in quanto alla sua storia, possiamo dire che ha centinaia di anni. E’ infatti con il ‘500, con la cucina delle Corti aristocratiche che la preparazione di cappelletti, tortelli, ravioli e di ogni altra pasta ripiena, vede la sua grande diffusione anche in ricettari di cuochi importanti come Cristoforo di Messisbugo e Bartolomeo Scappi, che ne descrivono la forma e il “compenso” cioè il ripieno. Che agli inizi sarà a base di “cascio fresco” cioè formaggi come la ricotta, e spesso con l’aggiunta di “zuccharo et spetie”.


SAPPIAMO che nel 1811 fu indetta una ricerca sulle tradizioni ed usanze della popolazione italiane nelle campagne. Nel rapporto dell’allora prefetto di Forlì Leopoldo Staurenghi si legge: “A Natale, presso ogni famiglia si fa una minestra di pasta col ripieno di ricotta che chiamasi cappelletti. L’avidità di tale minestra è così generale, che da tutti si fanno delle scommesse di chi ne mangia una maggior quantità”. Agli inizi del’900 Manzoni stesso individuerà già ben sette varianti della ricetta dei cappelletti e l’ Artusi nel celebre “Arte del mangiar bene” ne indicherà il ripieno nella versione classica di ricotta, parmigiano, uovo, sentore di noce moscata, pepe macinato, sale e scorza di limone grattugiato. Specificando anche che nelle altre versioni vengono aggiunti lombata di maiale o petto di cappone. Ed è proprio grazie alla loro grande diffusione, che gli ingredienti utilizzati nella farcitura oggi esistono in numerose varianti. Si tratta infatti di una pasta che con il tempo ha subito molti incroci e influenze a causa della lunga storia che ha alle spalle.


UNA CURIOSITA’. Il “cappelletto del goloso”: nascosto tra i cappelletti in brodo spesso si cela un cappelletto più grosso e con tanto ripieno. Fortuna e prosperità per tutto l’anno a chi lo trova nel piatto, a ricordo dell’antica consuetudine secondo la quale si riservava al capofamiglia questo grosso cappello come segno di affetto e riconoscenza.


VORREI CITARE ALFREDO PANZINI, tra i golosi storici, che nel suo “Dizionario moderno” del 1905 si dilunga a descrivere con trasporto affettuoso le Lasagne verdi o lo Zampone di Modena e registra la voce Cappelletti (di Reggio Emilia), e descrive i Tortellini con questo significato: “Consistono in un disco di sfoglia soda coll'uovo, farcita di carni bianche mescolate a tuorli d'uova, prosciutto, midollo, burro, noce moscata, parmigiano, etc, il tutto convenevolmente, secondo arte, preparato: i lembi del disco si ripiegano e avvolgono in modo che paia il calco di un ombelico. Venere, se non di Milo, di Bologna, dicesi, secondo una faceta leggenda, essersi prestata ad offrire il modello. Si mangiano in brodo e asciutti”.



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