Il mezzo comicamente minuscolo del netturbino ronza su per Via Giulia mentre sposto il mio peso da una gamba all’altra, in attesa davanti al forno. La cliente già all’interno della panetteria intrattiene una viva conversazione, di tanto in tanto sporgendosi in avanti, aggirando il divisorio in plastica dell’era COVID per gesticolare all’indirizzo di Giovanna, che annuisce inserendo cautamente dolci nella busta di carta. Capisco che l’avventrice non ha la minima fretta di andarsene. Questa è l’Umbria, dove una faccenda da sbrigare velocemente è diffusa come la pasta malcotta (non ho mai visto né l’una né l’altra, infatti), e so che a questo punto tanto vale mettermi comoda.


Per fortuna, la mia andatura si è adattata ai ritmi dell’Umbria, e considero quest’attesa un’opportunità per lasciare il mio naso libero di assorbire gli odori nell’aria e assaporare il profumo di dolci appena sfornati che aleggia nella nebbia autunnale. Traccio con lo sguardo il contorno delle antiche mura romane. Le mura — ciò che rimane dell’Arco di Augusto — potrebbero non rappresentare niente di eccitante per chi è cresciuto accanto a resti di civilizzazioni antiche che si ergono ancora stoicamente accanto a moderne istallazioni come i semafori, ma i miei occhi a stelle e strisce non si annoiano mai ad ammirare il forno annidato sotto le enormi pietre incise con caratteri antichi.

La cliente finalmente termina la sua scorta di gossip e si aggiusta la sciarpa prima di uscire dal forno. Ci scambiamo un cenno della testa e io cammino verso il legno consumato e la porta in vetro. La porta rimane appena aderente al pavimento, i pannelli in vetro, opacizzati da un sottile strato di condensa dovuta al calore interno, rendono l’immagine di Giovanna, che intanto sta riorganizzando la disposizione dei prodotti nel bancone, sfumata.

Entrando nel forno, si fa fatica a immaginarsi un negozio più piccolo di questo, di qualunque tipo sia, figurarsi una panetteria. C’è a malapena spazio per guardarsi intorno, perciò è divertente ricordarsi come, prima che la pandemia imponesse un limitato numero di clienti ammessi all’interno dell’attività, tre o quattro avventori alla volta riuscissero a stiparsi in uno spazio tanto angusto, discutendo animatamente del tempo e sporgendosi con la testa oltre l’angolo per richiamare l’attenzione dell’uomo in mutandoni e sneakers, intento a sfornare, pagnotta dopo pagnotta, il tipico pane sciapo umbro.

Per quanto piccolo sia il forno, l’offerta di prodotti non si ripete mai. Sì, la pizza è sempre presente, ma a volte si trova quella ai fiori di zucca oltre alle tradizionali bianca con rosmarino e rossa al pomodoro. Molto più spesso c’è quella alla cipolla — la mia preferita, quei bulbi caramellati esaltano la ricchezza dell’impasto. Adoro servirla con zuppa di lenticchie umbre o facendola a cubetti per essere gustata con Spritz pomeridiani e una ciotolina di capperi sott’olio, raccolti lungo le pendici rosate del monte Subasio, su uno sperone del quale si posiziona Spello.

Si possono sempre trovare biscotti al forno, ma a volte sono quelli alle mandorle da inzuppare in un liquore dolce da fine pasto (il Vin Santo toscano è l’opzione più scontata, ma qui in Umbria la gente del luogo preferisce il Sagrantino Passito); altre volte invece si possono individuare biscotti concepiti inizialmente della stessa forma di quelli tradizionali, ma morbidamente friabili, e poi ripiegati intorno a marmellata di prugne o albicocca.

Recatevi al forno di buon’ora al mattino e sarete certi di trovare brioche e paste per la colazione, ma c’è spesso qualche sorpresa nascosta tra i classici cornetti e le ciambelle farcite di crema o Nutella. I miei occhi si illuminano ogni volta che individuano l’ultima treccia rimasta, una pasta farcita alle noci e dall’aspetto intrecciato. La mia famiglia senza dubbio intavolerà una lotta per decidere a chi dovrà spettare il piacere di mangiarla, ma la semplice gustosità delle noci che arrotondano lo strato esterno di zucchero caramellato vale la battaglia.

Oltre alle consuete proposte del forno in termini di biscotti, pizza e colazione, questa nostra piccola gemma di panetteria offre quasi sempre anche qualche piccola sorpresa. Dei biscotti sperimentali, magari, oppure piccole torte ai pinoli. È una gioia per gli occhi il particolare tipo di sandwich con base di focaccia croccante il cui nome ha messo a dura prova la mia lingua. Alla lunga, Giovanna me lo ha trascritto, scrocchiarella, e mi ha assicurato che sia una parola effettivamente difficile da pronunciare.

Le festività rappresentano un momento di speciali avventure al forno. Gli artisti della farina e dello zucchero si superano ogni volta che arriva dicembre con i loro pandori leggeri e torreggianti, persino migliori di quelli per i quali ho setacciato tutta Venezia (e vi assicuro che non sono di parte, tutt’altro), e i panettoni così elastici e stratificati che ogni morso si trasforma in un sogno. E non parliamo dei dolci tipici del Carnevale — ogni giorno nuove frittelle e brioche fritte, alcune diffuse in tutta l’Umbria, altre, come ad esempio le girelle guarnite da scorza d’arancia, tipiche solo di Spello. Questa piccola panetteria sa come rendere speciale ogni ricorrenza.

Ma ora siamo a novembre, ancora lontani dalle delizie delle feste, e la fase del pane al mosto è finita con la vendemmia, perciò i miei occhi analizzano il bancone per conoscere tutte le opzioni disponibili. Alzo lo sguardo incrociando quello di Giovanna. “I maritozzi? Sono finiti?” Arrivo spesso troppo tardi per la mia brioche preferita, un panino dolce e soffice dall’esterno vagamente untuoso farcito con un’immensa quantità di panna montata.

Scuote la testa, inclinandosi appena sul bancone mentre spiega, “La raccolta”. Con gesti delle mani indica oltre la porta gli oliveti che si diffondono a partire da Spello come il motivo patchwork di un grembiule. “I maritozzi hanno bisogno di lievitare a lungo, e ieri eravamo troppo stanchi. Però, domani sì”.

Improvvisamente ricordo tutte le volte in cui ho visto la famiglia del panettiere riunita in Via Giulia questa settimana, intenti a caricare i loro “Apetti” a tre ruote con enormi secchi in plastica colmi fino all’orlo di olive. Ho rallentato il passo ogni volta che passavo davanti alla loro cantina per osservarli rimuovere foglie e piccioli prima di caricare di nuovo le olive per trasportarle al frantoio alla fine della strada. A dirla tutta, posso vedere il molino delle olive di Spello dalla mia terrazza. E non solo, posso anche sentirlo. Quegli anelli sembrano girare ventiquattro ore al giorno ultimamente, dal momento che Ape dopo Ape vi confluiscono casse e casse di olive. Ci sono davvero tantissime olive, sono impilate davanti al frantoio in una piramide che rischia di far sembrare minuscolo lo stesso mulino.

È stato un buon anno, dal punto di vista delle olive. Lo dicono tutti. Una stagione eccezionale, che è un regalo, una boccata d’aria, una piccola gioia dopo un difficile anno di pandemia. La raccolta è notevole sia per volume che per quantità quest’anno. Che delizia osservare gli abitanti che dispongono di appezzamenti terreni e gli agricoltori tutti riuniti fuori dal frantoio, in attesa per l’assaggio dell’olio nuovo. Prima di trasferirmi in Umbria, non avevo idea che il sapore dell’olio nuovo fosse come quello delle fragole di primavera — fragrante, fresco e così sfuggente. Una volta che l’olio resta nella bottiglia per lungo tempo, il sapore si intorpidisce, la texture si ammorbidisce. L’olio assume una colorazione più sbiadita rispetto a quella della sua gloria iniziale.

Ecco ciò che intendo: si possono far soffriggere aglio e trito di peperoncino in olio normale prima di buttare la pasta, o si può semplicemente spruzzare dell’olio nuovo, che non solo ha la struttura vellutata di un ricco grasso da cottura, ma ha anche mordente e un pizzicore che ricorda quello di condimenti sapientemente assemblati.


Mi ci sono voluti anni, ma finalmente ho compreso perché gli Umbri tremano di eccitazione quando la stagione della raccolta si avvicina, perché vedo il panettiere con un sorriso da un orecchio all’altro mentre sciacqua e risciacqua contenitori d’acciaio fino a farli splendere, pronto a far scorta di olio nuovo. Gli Umbri si leccano le labbra, entusiasti di riassaporare qualcosa che non hanno potuto più gustare per un intero anno — olio d’oliva, appena pressato.

L’Oro di Spello, la ricorrenza annuale della nostra città per celebrare pane e olio (quest’anno soppressa, come molte altre manifestazioni di riferimento) si rende ai miei occhi infinitamente colma di senso ora, in un modo che non avrei mai potuto comprendere prima. L’abitudine giornaliera degli Umbri di tostare il loro pane sciapo prima di cospargerlo con olio d’oliva fino a fargli perdere il suo aspetto tipico e farlo invece assomigliare a una ciambella salata ci connette alle raccolte passate mentre ci intreccia gli uni agli altri. Noi che dimoriamo nel cuore verde d’Italia condividiamo un amore smisurato per questo momento, durante il quale i maritozzi si nascondono nell’ombra per lasciare tutto lo spazio all’olio. La tradizione di raccogliere le olive, di pressare l’olio nuovo, dell’attesa col fiato sospeso, del primo assaggio tutti insieme — è fondamentale per l’Umbria e per l’essenza stessa degli Umbri.

E questo è il motivo per cui le persone che dispongono di olivi — e gli amici che vengono persuasi nell’aiutarli con la raccolta — hanno tutte un aspetto pallido ma soddisfatto. Così come Giovanna, che ora attende pazientemente il mio ordine.


Chiedo il mio consueto filone di pane sciapo cotto a legna e del pane scuro ai cereali che adoro per colazione, di solito con sopra uno dei cachi che dondolano brillanti da alberi privi di foglie e una grattugiata di pecorino locale. Mentre Giovanna fa scivolare le forme di pane nelle buste di carta, mi parla di come, dopo la raccolta, ricominceranno con la pizza del sabato sera. Sorridente, posso già assaporare il gusto dell’impasto lievitato, arricchito con olio d’oliva e una manciata di erbe, oppure patate e salsiccia. Spendo una preghiera per ringraziare il cielo che sia stata la raccolta, e non la pandemia, a bloccare la produzione della nostra panetteria. A dispetto delle mascherine, del plexiglass, della regola “uno alla volta”, il forno svolge le stesse funzioni essenziali di sempre — dar da mangiare a un’intera comunità tenendo il passo con le stagioni. Sono abbastanza sicura che si possa ancora lasciare un pollo qui al forno nel corso della mattina e riprenderlo più tardi, cotto e pronto per il pranzo, con una bruschetta appena bagnata d’olio d’oliva come accompagnamento.

Ripetendo la consueta trafila di saluti a Giovanna, penso a come lei e la sua famiglia si dirigeranno verso gli oliveti quando, a metà della giornata, la panetteria chiuderà. Li immagino scuotere i grossi rami di alberi contorti e rugosi, estasiati dal bottino che piove intorno a loro. In un anno in cui nulla sembra andare per il verso giusto per questa città, per il Paese, per il mondo, c’è ancora una verità indelebile: le olive.

Le olive sono fantastiche.

Le campane di Santa Maria Maggiore suonano l’ora e lascio che i miei pensieri si dispieghino seguendo la brezza e mi torna alla mente il tempo che io stessa ho passato negli oliveti, aiutando amici della valle a raccogliere le olive da centinaia di alberi. La serenità che cresceva scuotendo, scuotendo, scuotendo i rami, circondata da un mare di argento e verde a perdita d’occhio… Mi torna alla mente come il ritmo di quella giornata abbia domato i miei pensieri iperattivi tipicamente americani, dando loro sollievo fino a che la mia mentre e la mia anima non hanno iniziato a muoversi all’unisono con i movimenti svolazzanti delle foglie d’olivo.

Mentre passo davanti a un vicolo che si apre su una veduta della valle Chiona, noto che la magia degli alberi d’olivo non sta solo nel modo in cui incorniciano il paesaggio umbro, ma anche nel modo in cui ne incorniciano la cultura. Quegli alberi nodosi hanno nutrito una quantità di Umbri che pare quasi eterna e continueranno a fornire olio per generazioni a venire.

Al suono di un clacson, Mio, il gatto grigio con un solo orecchio, sfreccia attraverso la strada per poi scalare un arco di pietra e sparire nell’ombra. Svolto l’angolo per trovarmi di fronte a una Fiat 500 di un familiare color azzurro, non posso non sorridere. Il mio amico Angelo, con il suo inconfondibile sorriso che gli fa strizzare gli occhi, si sporge della sua macchinina e per un attimo temo che possa rovesciarsi fuori dal finestrino. Mi avvicino a lui mentre lui si ritira all’interno dell’auto per mostrarmi la ragione della sua malcelata gioia: solleva una bottiglia di olio nuovo, verdissimo, appena uscita dal frantoio di Spello, come fosse un trofeo. Esulto insieme a lui. Poi agita il suo filone di pane umbro mentre scandisce felice:

“Pranzo!”.

Batto le mani mentre Angelo rivolge di nuovo la sua attenzione alla strada, improvvisamente deciso a tornare a casa. E io so perché.

È ciò che amo dell’Umbria. Questi momenti fortunati non sono rari, succedono ogni giorno.

Così ordinari, e straordinari, come pane e olio

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