Le glorie del borgo
di Pietro Cozzi
Gualdo Tadino (Perugia) Rocca Flea - Il Museo Civico della rocca racconta l’avvincente storia artistica locale, dalla pittura del XIV e XV secolo, con il folignate Niccolò di Liberatore e Matteo da Gualdo, alle grandi dinastie dei maestri ceramisti
“È uno dei castelli federiciani più a nord d’Italia”, ti ripetono orgogliosamente i gualdesi, e scorrendo mentalmente la cartina della Penisola non puoi che convenire, con un po’ di stupore. Fu proprio Federico II di Svevia a volere, nel 1242, il restauro e il potenziamento della Rocca Flea, insieme alla costruzione delle mura di Gualdo Tadino. All’epoca il borgo aveva da poco trovato la sua definitiva collocazione, dopo continue distruzioni e ricostruzioni. Dal primitivo insediamento sul colle I Mori l’antica Tadinum si spostò prima più a valle, lungo la romana Via Flaminia, poi sul torrente Feo e infine, all’inizio del Duecento, sulla cima del colle Sant’Angelo. Un incessante peregrinare e una storia tribolatissima, segnata anche da una micidiale sequenza di terremoti (1751, 1832, 1997 e 1998) da cui la comunità si risolleverà sempre, come dimostra anche lo scintillante profilo della sua fortezza, che dopo il restauro ospita dal 1999 le collezioni del Museo Civico.
In magnifica posizione ai piedi del monte Serra Santa, l’altura che anticipa la selvaggia dorsale appenninica, la Rocca Flea testimonia l’importanza strategica dell’area, al centro del sistema viario che faceva da cerniera tra il Tirreno e l’Adriatico. Di origini alto-medievali, dopo l’intervento federiciano fu rafforzata nella seconda metà del Trecento con un cassero, voluto dai signori di Perugia, e poi completata nel Cinquecento dalla palazzina Del Monte. Ancora oggi il complesso include questi due corpi di fabbrica, raccordati da due piccoli cortili e dalle mura. Il XVI secolo segna l’inizio della conversione in dimora signorile: la rocca diventa la residenza dei rappresentanti ufficiali del papa. Particolarmente attivi nell’abbellimento degli spazi furono i cardinali Antonio Ciocchi del Monte e Giovanni Salviati, entrambi “titolari” di una sala interna.
Con l’avvento dei legati pontifici entriamo già nell’ultimo periodo davvero fecondo della storia architettonica del complesso. Le sue origini sono invece probabilmente nascoste negli ambienti dell’ex chiesa di Sant’Angelo de Flea, che fu poi inglobata al mastio. È l’ultimo, sorprendente ambiente del percorso di visita, ma il primo nella cronologia del sito. Qui scopriamo i resti di una duplice sequenza di affreschi. I lavori di stacco di quelli del ciclo della Vita di Cristo, dei primi del Quattrocento, hanno svelato una decorazione di poco precedente, che gode di una certa fama per l’inquietante Vultus Trifrons, il corpo a tre teste con cui un ignoto artista locale ha tentato di ritrarre il mistero trinitario. Siamo agli inizi della vicenda artistica gualdense. Nell’arco di due secoli, fra il Trecento e l’inizio del Cinquecento, il borgo si dimostra capace di attrarre artisti e opere dai territori vicini (Foligno, le Marche con Fabriano e Camerino), ma anche di creare una propria “scuola”, guidata dal pittore Matteo di Pietro di ser Bernardo, che per tutti è Matteo da Gualdo.
In un riuscito crescendo emotivo, dopo la sezione archeologica e prima di accompagnarci al cospetto delle opere dell’eroe locale il museo ci presenta altri due dipinti preziosi. In una piccola sala campeggia il Crocifisso della seconda metà del Duecento che un tempo stava sospeso sul presbiterio dell’ex chiesa di San Francesco. Ci mostra un Christus patiens, cioè “sofferente”, secondo l’iconografia francescana che si diffuse dal grande cantiere della basilica di Assisi. A confermare la drammatica verità della Crocifissione, ai piedi della croce si nota la piccola figura del santo in adorazione dei piedi sanguinanti del Salvatore. Dalla stessa chiesa proviene il sontuoso polittico (1471) di Niccolò di Liberatore detto l’Alunno, forse il capolavoro dell’intera collezione, a cui è riservato uno spazio a sé. Pittore folignate del secondo Quattrocento, l’Alunno si formò sulla tradizione umbra del Trecento, aggiornandola con i modelli del Beato Angelico e di Benozzo Gozzoli. Delle complesse macchine dei politici fu un autentico specialista, capace di organizzare in modo efficace affollate parate di santi, qui disposti sui due registri principali e nelle cuspidi, ma anche in scala minore nei pilastrini e nella predella. Il suo linguaggio nobile ed elegante, che ben si esprime nei volti della Madonna e del Bambino, è capace di improvvise accelerazioni in chiave più drammatica o realista, come nella rappresentazione della Pietà o nel gustoso dettaglio dell’occhialuto santo francescano intento a leggere un libro sorretto dal confratello.
Ai polittici dedicò buona parte della sua opera anche Matteo da Gualdo (1430 circa-1507), protagonista nella pinacoteca all’ultimo piano insieme ad altri artisti del Tre-Quattrocento di area umbro-marchigiana-adriatica, a testimonianza della ricchezza di scambi tra i due versanti dell’Appennino, almeno fino a che Roma non si impone come centro attrattivo. Capostipite di una dinastia di notai-pittori, che annovera anche il figlio Girolamo e il nipote Bernardo, Matteo è l’espressione di un Rinascimento atipico ed eccentrico, un artista di spiccata personalità che recepì solo in parte le novità del suo tempo, mescolando il gusto per il dettaglio decorativo e architettonico e i raffinati cromatismi con una “messa in scena” ancora tradizionale. Tra i dipinti esposti, che ne documentano il percorso dal 1462 fino alla fine del secolo, spiccano i tre trittici, tutti con al centro la Madonna in trono con il Bambino. Quello di Santa Margherita è illuminato dall’oro si cui si stagliano le coloratissime figure dei santi; ai piedi della Vergine si accuccia un draghetto, mansueto come un cagnolino. In quello con San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista la tavola ha un disegno più classicheggiante, in cui i pilastri sostituiscono le cuspidi, e la coppia al centro siede sotto un baldacchino a tenda. Nel terzo trittico, il contrasto emotivo tra lo sguardo torvo di Sant’Antonio Abate e la dolcezza della Vergine non lascia indifferenti. Alla fase tarda della carriera del pittore appartengono l’Albero genealogico della stirpe di David, di straordinaria complessità iconografica, in cui i precursori del Cristo sono rappresentati tra i rami di un albero generato dal corpo di Adamo, e la tavola dell’Annunciazione. Ambientata sotto un portico, la scena è circondata da un contesto urbano descritto con minuzia di particolari, dai piccoli personaggi affacciati sullo sfondo, intenti nelle loro attività quotidiane, fino alla lastra a bassorilievo sulla sinistra. Matteo tenta anche una resa prospettica, ma commette diversi errori.
Ormai osannato come un eroe locale, ritroviamo il nostro pittore ritratto in un piatto da parata del 1878, nella sezione che il museo dedica alla ceramica gualdese. Dalla fine del XIX secolo il borgo si guadagna un’inaspettata visibilità internazionale grazie alle maioliche a lustro. Gli opifici si moltiplicano, guidati da ceramisti illustri come Paolo Rubboli e Alfredo Santarelli. Piatti e vasi si ispirano nei decori alla tradizione rinascimentale, ma non disdegnano qualche incursione nella modernità. E soprattutto brillano di una lucentezza eccezionale. Il segreto si nasconde nella tecnica del terzo fuoco che prevede, dopo le prime due cotture, un terzo passaggio dei pezzi in speciali forni detti “muffole”.