L'attimo friggente
di Marilena Badolato
La cucina di un popolo è la sola esatta testimonianza della sua civiltà. Eugène Briffault
LA CUCINA DELL’ATTIMO FRIGGENTE.
Come l’attimo fuggente quello “friggente” è immediato, e fissa, cuoce e non brucia. Perchè il segreto di una grande frittura è il tempo, con la sua parte da protagonista: quel momento magico in cui lo scarto delle temperature determina un’attrazione fatale che trasforma la gelida pastella in una bollente leccornia. Un fritto ben fatto è assaporato con tutti i sensi: lo sfrigolamento grato all’orecchio e, insieme al climax sonoro, si diffonde subito quell’odore tipico che invita a gustarlo, coinvolgendo così naso e bocca; il colore rosolato, bello per l’occhio; il piacere tattile del cibo portato alla bocca con le mani. E nel fritto di strada, lì dove è nato, le sensazioni si amplificano. Non ci sono posate, inutili orpelli, il cartoccio è il suo contenitore e quel contatto diretto, la sensazione untuosa a livello tattile, è pervasiva e persistente e coesiste con quella olfattiva. L’unto del fritto permea i fogli di carta e la pelle delle dita, raddoppiando la sensazione del piacere goloso senza limiti. Nel fritto alimento e procedura gastronomica sono molto coinvolgenti dal punto di vista percettivo: un fritto è “gustoso” proprio per il suo intero percorso polisensoriale.
E si somma la curiosità di cercare quell’alimento primario nascosto da un involucro che lo ricopre come prezioso scrigno di gusto. Lo sposa, lo avvolge, aderente e asciutto, donandogli una forma che altrimenti non avrebbe e creando l’improvvisa agnizione del suo svelamento. E’ proprio quella sublime doratura a compiere il miracolo, trasformando in sapore la sostanza, altrimenti spaesata, semplice materia.
QUESTIONE DI TEMPI.
Nella frittura sembra che molto, perfino linguisticamente, abbia a che fare con la parola “tempo” e i suoi derivati. Come nel caso della tempura, in origine una sorta di pastella fritta con qualche verdura che i missionari portoghesi della Compagnia di Gesù introdussero in Giappone nel Seicento per rendere meno gravosa l’astinenza dalle carni cui i cristiani erano obbligati, per tre giorni la settimana-mercoledì, venerdì e sabato-, nelle cosiddette “quattro tempora”, la divisione dell’anno liturgico in quattro momenti che seguivano in fondo le quattro stagioni: eiunium vernum, aestivum, autumnale et hiemale. La tempura, con la sua incorporea levità, non rappresenta un semplice cibo fritto, ma quasi la sua sublimazione: non vi è scoria nè crosta, e “la farina ritrova la sua essenza di fiore sparpagliato- scrive il semiologo francese Roland Barthes- è un blocchetto di vuoto, ha la sua forma e sembra non abbia la sua sostanza…una collana di luci, un gomitolo d’aria all’insegna della leggerezza e della velocità”. E il cuoco diventa allora quasi un calligrafo, un grafico, impegnato a costruire un interstizio “senza bordi pieni” o meglio “un segno vuoto”. Emblema ideale, simbolo gastronomico della modernità, dei suoi tempi brevi, dei consumi immediati, del vivere just in time.
LA SORPRESA: IL SEGRETO DELLA FRITTURA.
Se il segreto della frittura è la sorpresa, come scrive Brillat-Savarin nella sua Fisiologia del gusto (Teoria della frittura, cap. VII), allora friggere è cogliere il cibo alla sprovvista, fissarlo in una specie d’incantamento. “Nulla che assomigli alla gradualità della bollitura o alla progressione brusca e violenta dell’arrostitura. Ma improvvisamente il grasso immobilizza la sua preda e le strappa il segreto del suo sapore. Lo shock della frittura riveste l’alimento di una luce aurea, come un’emozione rivelatrice” scrive Marino Niola. Allora la frittura nasce proprio per una condivisione live delle fasi di cottura e consumo. Calda, da sempre.
UN PO’ DI STORIA.
“Primo assam, secundo elixam, tertio ex iure uti coepisse natura docet”, scrive Marco Terenzio Varrone. Sembra quindi che la categoria del fritto non sia tra le cotture più antiche: secondo l’insegnamento della natura per primo è venuto l’arrosto, poi il lesso e per finire il cotto in salsa. Cuocere arrosto (assam), sarebbe un cuocere asciutto, un privare l’alimento della sua parte umida, che si avvicina direttamente alla sfera primitiva del crudum. Il termine assus del resto fa riferimento al verbo areo (sono asciutto, secco), dunque arrostire vuol dire nella cucina di Roma antica prosciugare. Tutto il contrario dell’elixam, il lessare (anticamente lixa era l’acqua, la stessa radice di liquidus), per cui e-lixus è qualcosa messo sott’acqua, qualcosa, conclude Maurizio Bettini, di “acquato”. Da una parte si cuoce togliendo l’acqua (arrostendo), dall’altra si cuoce aggiungendo acqua (lessando), tanto che sembra che nell’antica Roma fosse un tabù alimentare quello di mangiare insieme cibi arrostiti e cibi lessati. Nel caso invece del cuocere in salsa (ex iure), una cottura più sofisticata e quindi più tardiva, non si trova una netta contrapposizione, ma un’affinità con la cottura umida che conserva i succhi invece che disperderli: laddove si cuoceva “sott’acqua” (e-lixus) qui si cuoce “con” o “sotto succo” (ius).
E IL FRITTO?
Se si parte dal lessico, cioè dal verbo latino frigo, il fritto non ha il significato univoco del verbo italiano friggere. I Latini infatti erano capaci di frigere ceci, lenticchie, fave. In questi casi, sembra, che frigo sia parente di torreo, tostare. Se esistevano “fritture” queste erano in liquidi diversi, come racconta Apicio: in un misto di garum, olio e vino, oppure di garum, acqua, aceto e olio, o anche in garum e vino, ma sempre ad alta temperatura che – come descritto anche da Nonio – provocava “sussulti e sfrigolii”. Ciò che è fritto, frictilia, sfrigola, cioè è cotto ad alta temperatura, e quindi “salta ed emette suono”. Friggere poi in molti casi sembra semplicemente sinonimo di cuocere e i due termini spesso sono usati indifferentemente nelle ricette. Del resto già per i Greci il friggere equivaleva al tostare. Il termine phryktòs compare nel mondo greco ad indicare alcuni cibi offerti alle divinità, e lo si ritrova nei menù citati in commedie del IV sec. a.C. e anche in Ateneo di Naucrati (III sec. a.C.). In greco antico quel termine è il participio passato di phrygein (tostare) e i phryktòs erano dunque cibi tostati che Menandro descriveva come mediocri e volgari. E che i medici greci come Ippocrate e Galeno sconsigliavano, mettendo in guardia sulla loro pesantezza.
IN ITALIA
Un libro toscano del XIV secolo, composto su un precedente modello meridionale contempla per la frittura due possibilità: lardo oppure olio, l’essenziale è che sia “ad abbondanza”. Solo in questo modo la frittura viene croccante e gustosa, e per giunta meno unta, come ben sappiamo oggi: se la si immerge completamente nel grasso, i tempi di cottura si riducono e con essi la quantità del grasso assorbito. Maestro Martino, famoso cuoco italiano del Quattrocento, dedica al fritto e alle frittelle un intero capitolo del suo ricettario (Libro de arte coquinaria, cap V) spiegando come “far ogni frictella”: di fiore di sambuco, di bianco d’uovo con fior di farina e cacio fresco, di latte quagliato ovvero giuncata, di riso, di salvia, di mele, di erbe amare, di mandorle, e persino “frictelle piene di vento: e con un bicchiere la tagliarai (la pasta), frigendola in bono oglio: et guarda non ti venisse bucata in niun loco, et a questo modo si gonfiaranno le frictelle, che parranno piene, et seranno vote”. E troviamo la raccomandazione per i giorni di magro: “si fusse in tempo quadragesimale, le poi frigere in olio, et non gli mettere grasso né ova”, e quella di servirle sempre calde: “et farale frigere in bono strutto o botiro, overo in bono olio, et calde le manda in taula”. Così il gusto del fritto e delle frittelle è stato ed è ogni volta diverso, determinato ora dalla suadente intensità dello strutto (il lardo “distrutto” dal calore), ora dalla morbida dolcezza del burro (grasso dei giorni di grasso) ora dal benefico amarognolo dell’olio d’oliva (grasso dei giorni di magro) che ha assunto oggi crescente importanza come super food. Motivazioni religiose e scientifiche si sono sovrapposte alle più semplici ragioni del gusto, dell’economia e della tradizione, già evidenziate da Pellegrino Artusi quando nella Scienza in cucina scrive: “ogni popolo usa per friggere quell’unto che si produce migliore nel proprio paese. In Toscana si dà la preferenza all’olio, in Lombardia al burro e nell’Emilia al lardo”. E, nell’opera, la lista dei fritti è lunga: sono ben sessantatré le ricette di fritti dolci e salati. In generale per i grassi alimentari, l’Italia è all’incirca divisa in due aree: il settentrione dominato dal grasso di maiale e burro di mucca, il centro- meridione dominato dall’olio d’oliva e in piccola quantità anche dallo strutto suino.
A PROPOSITO DELLA PASTELLA
“La scelta delle pastelle, quelle destinate al rivestimento degli alimenti da friggere, è fondamentale, così come la scelta dei recipienti e gli accorgimenti da tenere in cottura. Così le pastelle dedicate ai fritti vanno fatte riposare in frigo o in freezer, chè lo sbalzo termico, a contato con l’olio caldo, determina l’ottima croccantezza della nostra frittura. Una pastella consistente è consigliata per i cibi umidi e quelli precotti, si evita così lo sfaldamento dei pezzi in cottura. Gli alimenti asciutti preferiscono una pastella più liquida che conferisca la giusta umidità. I cibi saporiti, come carni, formaggi, richiedono una panatura, il pesce richiede un semplice passaggio in farina, mentre coniglio e pollo, dopo l’infarinatura si passano in uovo sbattuto. La patata, l’uovo, la pasta lievitata, ricchi di amido, a contatto con il grasso caldo sigillano facilmente formando una bella crosticina, senza bisogno di alcun rivestimento […] (I Sussidiari di cucina di Susanna Badii. Metodi e tecniche di cucina applicati a sessantaquattro ricette. Volume 1: le uova-le pastelle-le fritture. Letizia Editore- Arezzo. 2019)
…E DELLA NOSTRA PADELLA PER FRIGGERE
Il suo nome deriva dal latino “patella” ossia piccolo piatto. È un recipiente di metallo, rotondo, basso, a sponda curva (sauteuse), munito di manico di una lunghezza generalmente pari al diametro. Ha un’origine lontana e l’esemplare più antico sembra sia stato rinvenuto negli scavi di Pompei. La forma attuale risale probabilmente al XVII secolo. All’inizio in ferro battuto al martello, successivamente in ferro smaltato, poi in alluminio ed infine in acciaio inossidabile. Il ferro nero con il quale vengono ancora costruite le padelle classiche, dette “lionesi”, è il materiale ideale per tutti i tipi di frittura, perché grazie alla sua caratteristica di modesto conduttore di calore, agisce quale “regolatore” della fiamma, evitando i bruschi aumenti di temperatura all’interno del recipiente. In Umbria durante la Quaresima, poichè si friggeva con lo strutto di maiale, le padelle venivano riposte e fino a Carnevale non utilizzate.
I GRASSI COME MARCATORI CULTURALI
Ogni civiltà ha i suoi grassi e per questo sono considerati importanti marcatori culturali e così anche fritto e fritture, con tutti i loro derivati, seguono le caratteristiche di due aree culinarie: quella europea e quella asiatica. Nell’area europea la presenza del fritto e della frittura non sono state uniformi e non lo sono ancora oggi, poichè coinvolgono aspetti culturali, di gusto e di tecnologie, iniziando dalla disponibilità e qualità dei grassi e delle stoviglie, e del fritto stesso, del suo sapore (salato o dolce) e suo utilizzo nel menù (apertura, intermezzo, chiusura). Inoltre in Europa, vi è l’olio d’oliva nelle culture mediterranee e il grasso di maiale in quelle settentrionali. In Asia, il grasso di pecora domina nel vicino Oriente, l’olio di soia in Cina e il burro in India. GLI OLI PER FRITTURA. Dovendo indicare le proprietà dei diversi oli, possiamo segnalare che in frittura sono da preferirsi l’olio extra vergine d’oliva e quello di arachidi, proprio per il loro alto punto di fumo. L’olio di mais e quello di girasole, pur comportandosi bene per cotture a fuoco moderato, non sono consigliati per la frittura. Decisamente da evitare l’olio di soia e quello di semi vari. Le margarine sono sempre da escludere. Il burro ha un impiego limitato, perchè non regge le temperature di frittura, subendo trasformazioni e producendo sostante tossiche.
FRITTI RIFRITTI STRAFRITTI. GLI “STRAFRITTI” PERUGINI.
Fritti sono quegli alimenti che friggiamo secondo le norme e la consuetudine. Fritti e rifritti sono i soliti argomenti che spesso sentiamo di nuovo o rileggiamo in articoli scritti e riscritti e che in fondo ci annoiano. Chiamo invece “strafritti” gli “stragolosi” perugini, il meglio delle nostre tipiche, storiche fritture, quelli dove sorpresa e tempo sono perfetti, quelli veri, buoni e gustosi. “Fritta è buona anche una ciabatta” cita un noto proverbio, ma in realtà esistono, in ogni regione italiana, i fritti tradizionalmente preferiti. Gli “strafritti” perugini partono dall’arvoltolo, un vero street food ante litteram, perché il fritto nella storia è cibo della strada e della piazza. Sorta di pasta di pane lievitata e fritta, dalle antiche origini di semplice pastella di acqua e farina e aromatizzata talvolta da piccoli aghi di rosmarino, e presente, in occasione delle feste, nella nostra cucina contadina sin dal XVII secolo. L’arvoltolo è sempre servito caldo cosparso di sale oppure di zucchero. Il termine dialettale significa che va girato in cottura affinchè si indori da ambedue le parti. E ancora godiamo dei supplì, il cui nome sembra derivi dal francese surprise, sorpresa, e al loro interno troviamo infatti la mozzarella, in quelli bianchi, o il ragù in quelli rossi e spesso quello nostrano è di “rigaglie”.
Tipica è anche la parmigiana di gobbi, a base di quel cardo che si raccoglie generalmente all’inizio dell’inverno. Le sue coste vengono lessate e tagliate a piccole strisce, fritte con una pastella di farina e uova sbattute e poi disposte a strati in una teglia, alternate con sugo di pomodoro o ragù e abbondante parmigiano. Il tutto viene infine gratinato in forno: è rigorosamente presente sulla tavola natalizia. Il baccalà fritto alla perugina era ed è ancora oggi un piatto del venerdì in tante trattorie. Ammollato, tagliato a pezzi, “pastellato” e talvolta “rifatto in umido”, cioè passato in padella con una salsa di pomodoro. Sempre a proposito di pesce, e virando verso il Lago di Perugia, troviamo i filetti di persico fritti, uno dei piatti tipici di tutta la zona del Trasimeno, come la gustosa laschina (i latterini) semplicemente infarinata, spesso anche con farina di mais ad aumentarne la croccantezza, e servita su cartocci invitanti. Piccola digressione sulla lasca del Trasimeno, la cui storia ha origini molto antiche a Perugia tanto che uno degli appellativi dati ai perugini era proprio quello di “mangia lasche”. Per secoli il pesce più presente sulle nostre tavole, tanto da essere citate da Franco Sacchetti (XIV sec.) in una delle sue Trecento novelle. In documenti degli archivi universitari (Il cibo e le carte. Testimonianze di storia alimentare nei fondi archivistici e librari dell’Università di Perugia” XVIII-XIX secolo- Complesso documentario del Collegio Pio della Sapienza Nuova) si legge che ai collegiali “le lasche venivano servite per lo più fritte, talvolta marinate, spesso accompagnate da erba.” Del resto questo pesce era considerato prelibato nel Medioevo e preferito dai Papi che ne ordinavano copiosi quantitativi grazie alla pescosità del Trasimeno. Sembra infatti che emissari papali fossero incaricati di reperire la lasca del nostro lago per imbandire le tavole per le importanti cene di magro come quella del Giovedì Santo. Nel secolo d’oro del pesce – come è stato definito il Cinquecento – il Trasimeno era conosciuto in tutta l’Italia centrale proprio per questo settore di mercato. “Questo lago – scriveva due secoli prima Fazio degli Uberti nel Dittamondo – è tanto ricco di buon pesce che assai ne manda fuor della sua terra” e non solo grazie alle tecniche di conservazione, in particolare la salagione e l’essiccamento, in cui i perugini eccellevano.
Nell’epistola Thrasimeni descriptio seu de felicitate Thrasimeni (1458), Giannantonio Campano descrive le modalità con cui il pesce fresco arrivava da Perugia ai mercati ittici di Roma e della Toscana: “le strade brulicano di carrettieri che trasportano ceste di vimini intrecciati colme di pesce”. Per comprendere l’importanza dell’esportazione del pesce del Trasimeno basti ricordare un dato: nel 1469 la città di Perugia stipulò con Siena un accordo in base al quale le avrebbe destinato 200.000 libbre di pesce all’anno, di cui 180.000 durante la Quaresima. Inoltre, negli scrittori fiorentini, la lasca diventa sinonimo per antonomasia di salute: “Ella è sana come una lasca”, scrive Pietro Aretino nel Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa. Giornata I. La lasca indica a Firenze genericamente il pesce, come del resto appare dal celebre verso dantesco che allude alla costellazione dei Pesci (Pg XXXII 54, la celeste lasca). E uno dei primi commentatori della Commedia, Francesco di Bartolo da Buti, precisa in una chiosa: “Lasca è una specie di pesci che si trova nel lago di Perogia”. Tornando ai fritti tradizionali perugini, troviamo tra i cibi pasquali le costolette d’agnello e i carciofi fritti, mentre la testina o testiciola d’agnello, lessata e fritta, era tipica un tempo delle trattorie della città con il prezioso cervello che si vendeva a parte. Le frittate nostre sono con la cipolla, con il barbozzo, con le erbe di campo, con il tartufo, bianco e nero, che ci regala la verde Umbria. Tra i dolci tante frittelle durante il Carnevale: le castagnole o brighelle, ottenute da un impasto di uova, zucchero, farina, olio extravergine d’oliva, scorza di limone, lievito, Mistrà, spesso riempite di crema o cioccolata; le frappe, sottili strisce di pasta tagliata in strane forme sfrangiate, o a gala, a nodo arricciate che vengono fritte nell’olio e servite cosparse di alchermes e zucchero vanigliato, oppure di miele; gli strufoli (da non confondere con gli struffoli partenopei, dolce simile alla cicerchiata abruzzese il cui nome deriva dal latino cicercula diminutivo di cicer “cece”), pasta dolce tagliata in pezzi grossolani che venivano un tempo cotti nello strutto suino e oggi nei salutari oli evo o di arachide. “Il nome sembra derivi dal greco “strongoulos”, arrotondato e “pristòs” tagliato, dando origine a “strongoulos pistos” cioè una palla rotonda tagliata” (Ida Trotta, Perugia a tavola. Morlacchi Editore 2017). E primeggiano tra tutte le frittelle di san Giuseppe, una tra le sante pietanze dedicate ai nostri protettori celesti, a Perugia rigorosamente di riso e preparate nel giorno della festa del santo, mentre in alcune zone dell’assisiate e del folignate si preparavano con farina di mais. E che san Giuseppe fosse “frittellaro”, lo attestano le ricette che si ricorrono da nord a sud della nostra penisola proprio il 19 marzo, giorno a lui dedicato. Così il semplice e parco Giuseppe si è trovato a condividere, vista la data della festa, le tipiche preparazioni del grasso carnevale, un pretesto per spezzare il tempo di Quaresima in vista della grande festa del Resurrexit. Del resto anche la natura risponde a questa voglia di cibo godurioso: la fine dell’inverno con i suoi rigori e l’annuncio della bella stagione. Non a caso in molte parti d’Italia la festa è accompagnata da propiziatori falò, simbolo di distruzione con il fuoco e quindi rigenerazione. Una curiosità: Perugia dal 1400 possiede l’anello con cui, vuole la tradizione, Giuseppe sposò Maria. Il “Santo Anello” è conservato in una cappella della cattedrale di San Lorenzo e, per arrivare al reliquiario contenuto in un forziere, servono ben 14 chiavi in possesso ai “maggiorenti” della città. Viene esposto ogni anno alla devozione dei fedeli.
IL FRITTO: COSA DA AFFAMATI.
Nella mia città, Perugia, restò a lungo fino a tutti gli anni Settanta, una friggitoria molto nota ai perugini che attirava col suo aroma di frittura. Il vicolo della “Friggitoria della filovia” (così era chiamata) girava in via del Forno, sbucando su via Fani da un lato e su via del Mercato dall’altro (chiamata così in rapporto all’area mercantile del Sopramuro, oggi Piazza Matteotti). Il doppio imbocco impediva ogni possibilità di confusione su quell’aroma imperioso, e la tramontana faceva il resto. Così il profumo di fritto invitante inondava il vicolo spargendosi da ogni lato inebriando noi che eravamo appena usciti dal liceo e disposti a fare la fila per quelle fette di patate, collegate da uno stecchino, che preparava il sòr Carlo. Cose da affamati. Senza contare che talvolta, durante la “ricreazione”, avevamo già gustato i bomboloni della Pasticceria dell’Accademia, con quel profumo di fritto zuccheroso che si spalmava dal mattino presto lungo via dei Priori e che ci seguiva, miracolosa scia odorosa, prima di entrare a scuola. Rendendo sicuramente meno gravosi l’interrogazione di greco o il compito in classe che sarebbero seguiti. “Questo è l’odore che mi piace. Questo è il trifoglio appena tagliato, la salvia calpestata quando uno cavalca dietro un armento, il fumo della legna e delle foglie che bruciano d’autunno. È l’odore della nostalgia, l’odore del fumo dei mucchi di foglie che bruciano l’autunno nelle strade del Missoula. Quale odore preferiresti sentire? L’erba dolce che gl’indiani adoperano nei loro cesti? Il cuoio affumicato? L’odore della terra a primavera dopo la pioggia? L’odore del mare quando si cammina in mezzo alle ginestre su un promontorio in Galizia? O il vento di terra quando si avvicina a Cuba nell’oscurità: l’odore dei fiori di cactus, di mimosa e delle viti marine? O preferisci l’odore del prosciutto fritto, la mattina, quando hai fame? O quello del caffè del mattino? O di una mela quando la mordi? O di un frantoio quando si prepara il sidro, o del pane appena sfornato? Ma allora devi aver fame, pensò […]” (Ernest Hemingway, Per chi suona la campana.