Quando i bambini bevevano il vino
di Eleonora Cesaretti
Alimento genuino e nutriente, il pane era considerato un tempo la merenda perfetta, soprattutto per i bambini. La domanda ricorrente di nonne e mamme, durante quei pomeriggi di settant’anni fa, era chiara e diretta: «Che vuoi col pane?»
Gli abbinamenti potevano essere diversi: d’estate, rossi e succosi pomodori vi venivano strusciati sopra, arrossando e ammorbidendo la lattiginosa fetta; d’inverno, il sapore piccante dell’olio d’oliva ne imbeveva la porosa trama. Non mancavano variazioni più esotiche, come burro e acciuga, oppure miele e noci, senza contare l’intramontabile pane e salame.
Dal momento che il pane si faceva con cadenza settimanale, era facile che si utilizzasse quello raffermo, e il risultato era forse ancor più gustoso: è il caso di pane, zucchero e vino, uno spuntino che i bambini, attirati dal colore rosso e dalla consistenza vellutata dello zucchero semolato, aspettavano con trepidazione. Così, mentre i più agiati consumavano mandarini, banane o arance, i figli del popolo si beavano di fette di pane – nel centro Italia rigorosamente sciapo – inzuppate nel vino novello e poi ricoperte di zucchero.
Il vino fa buon sangue
Siamo in un periodo in cui era convinzione comune che il vino «facesse buon sangue», sebbene, fin dalla Grande Guerra, fossero state portate avanti numerose campagne contro l’alcolismo. Vero era che le vecchie abitudini erano dure a morire: nel 1866 nientemeno che Louis Pasteur aveva pubblicato gli Studi sul Vino, in cui proponeva di riscaldarlo a 57° per eliminare i microbi e le impurità. Questa soluzione gli aveva fatto vincere il grand prix all’Esposizione Universale del 1867 e aveva ufficialmente sancito l’invenzione del processo che, ancora oggi, porta il suo nome: la pastorizzazione. Il vino era divenuto così «la più sana e igienica delle bevande», tanto da essere offerta persino nelle scuole.
Tutte le farmacie d’Europa erano poi fornite di vini medicinali, chiamati enoliti, insieme a un prodigioso Vin Mariani, capace di «nutrire, tonificare e rinfrescare», assurto a medicamento universale grazie ai suoi miracolosi effetti. Renata Covi, nel suo Tacuinum de’ Spetierie, ci racconta la storia del suo inventore, il corso Angelo Mariani che, incuriositosi dell’effetto che le foglie di un arbusto, l’Erythroxylum Coca, avevano sulla popolazione peruviana, abituata a vivere a quote altissime e a lavorare con grande sforzo nelle miniere d’argento, decise di farne un infuso. Il sapore era terribile, perciò decise di aggiungerlo a uno dei più rinomati vini di Francia, il Bordeaux. Gli effetti erano pressoché miracolosi: cominciarono a farne uso gli attori, per poter calcare le scene nonostante i malanni di stagione, seguiti da re e papi, che lo resero un vero e proprio must.
Quando, infine, si scoprì che la coca era un alcaloide capace di agire sulla psiche e sul fisico, il Vin Mariani cadde nell’oblio; eppure, nelle campagne a vocazione vinicola, dove era difficile capacitarsi che una bevanda tanto prodigiosa potesse far male, il semplice vino rosso continuò, fino al 1960, a essere considerato un ottimo ricostituente.
Alcolico sì, ma non troppo
Le generazioni successive, ormai figlie di studi conclamati e di una consapevolezza diffusa, si sono dovute accontentare di una merenda a base di pane e zucchero, ammorbidito con acqua. I più fortunati potevano ingenuamente gustarsi pane, ricotta e zucchero, spesso conditi con… l’alchermes. Alcolico sì, ma non troppo. Oggi, gli adulti più curiosi potranno rivivere i sapori dell’infanzia inzuppando il pane nei sublimi vini di Montefalco, Torgiano, Corciano, e di tutti quei borghi umbri caratterizzati da una produzione vitivinicola d’eccellenza.