Alla maniera dell’autore
di Martina Pazzi
All'Università per Stranieri di Perugia, giovedì 22 marzo, una conversazione con Claudio Magris 'Sul tradurre'.
PERUGIA. «(…) Trangugiò un ‘chéri’, perché quello era un tempo appartenuto a Jean Pierre, si stropicciò le orecchie, dove di solito poggiavano le conchiglie della cuffia, funzionavano automaticamente gli interruttori e avvenivano le commutazioni linguistiche. Era proprio uno strano meccanismo il suo, viveva senza un solo pensiero in testa, immersa nelle frasi degli altri che immediatamente doveva ripetere come una sonnambula, ma con suoni diversi: di ‘machen’ sapeva fare to make, faire, fare, hacer e delat’, era capace di girare ogni parola come su un rullo per ben sei volte, soltanto non doveva pensare che machen significava veramente machen, faire faire, fare fare, delat’ delat’, questo avrebbe reso la sua testa inservibile e lei doveva stare molto attenta a non venire un giorno travolta da quella valanga di parole». La traduzione, così come l’aveva concepita Ingeborg Bachmann, era (doveva essere), in quel caso, simultanea. Come il titolo del suo racconto, tradotto in italiano, per i tipi di Adelphi, nella raccolta ‘Tre sentieri per il lago e altri racconti’.
Sul ‘rullo’ della traduzione si colloca (anche) una qualche forma di ‘tradimento’ del testo di partenza? Tradurre è tradire? E ancora: come può essere definita una traduzione letteraria? Quale approccio assumere nell’atto del tradurre? Se, come affermava Mario Luzi, la traduzione è un fatto empirico, come si può, poi, ricavarne una teoria? Nei confronti di chi e di cosa può essere oggettivato il concetto di ‘fedeltà’? Verso l’autore, il testo, la lingua d’arrivo o nei confronti del pubblico dei lettori? Forse verso il testo. Ma (presumibilmente) per essere fedele al testo, il traduttore deve compiere tutte le infrazioni possibili. Nei confronti, appunto, del testo. Claudio Magris sostiene che, a tal proposito (a proposito, cioè, della dicotomia fedeltà-libertà) ‘nel tradurre la fedeltà debba essere libera’. Che cosa si intende per ‘empatia’? Vi è un qualche grado di immedesimazione? Si deve scrivere, respirare anche, alla maniera dell’autore? Cosa significa, in ultima istanza, ‘una buona traduzione’? Chi può definirsi ‘un bravo traduttore’?
Questo, il contenuto dei quesiti posti nel pomeriggio di giovedì 22 marzo, in una gremita aula magna di Palazzo Gallenga, dalla professoressa Snežana Milinkovič, titolare della cattedra di Italianistica all’Università di Belgrado, e traduttrice di ‘Danubio’ (‘Dunav’) e di altre opere di Claudio Magris tradotte in serbo, al noto scrittore, collaboratore del ‘Corriere della Sera’, e germanista, studioso della cultura della Mitteleuropa e autore, fra gli altri, di Microcosmi (1997, Premio Strega). Alla presenza del Magnifico Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, professor Giovanni Paciullo, della Direttrice del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali e Coordinatrice del Dottorato di ricerca in Scienze letterarie, librarie, linguistiche e della comunicazione internazionale dello stesso Ateneo, professoressa Giovanna Zaganelli, del professor Enrico Terrinoni, presidente del corso di laura magistrale in Traduzione e Interpretariato per l’Internazionalizzazione dell’Impresa (TrIn) e traduttore, con Fabio Pedone, di Finnegans Wake di Joyce in italiano (che, a proposito di traduzione, ha affermato si tratti di un atto di ‘ri-creazione’, di traduzione creativa, in quanto il testo tradotto è un testo che ha subìto una trans-creazione culturale. Lo stesso Joyce, in fondo, affermava di non poter essere tradotto, ma solo reso poeticamente, mentre Borges, dal canto suo, era solito affermare che, leggendo i propri libri in traduzione, scopriva molte cose su di sé) e di un nutrito pubblico composto da docenti, dottorandi e studenti, che hanno partecipato all’incontro ‘sul tradurre’.
Il Rettore ha introdotto la conversazione ‘Sul tradurre’ e ha presentato la figura eclettica di Claudio Magris – membro dell’Accademia dei Lincei, è stato professore di Lingua e letteratura tedesca nelle Università di Trieste e Torino, ed è stato insignito del premio Kafka nel 2016, e autore di saggi e di narrativa, oltre che traduttore e autore di servizi giornalistici, difficilmente etichettabile e arginabile entro schemi fissisti – come «un protagonista della scena culturale internazionale, un intellettuale aperto e dialogante, che non ha affidato il proprio percorso solo ed esclusivamente alle pubblicazioni accademiche». «Sono emozionato – ha proseguito il Rettore – nel presentare una grande personalità della cultura internazionale, di cui ho ricercato e archiviato la saggistica e i servizi editati nel ‘Corriere della Sera’, per certi versi anticipatori del mondo che stiamo vivendo oggi».
«Nella mia vita – ha affermato Magris – il mio mestiere è stato quello di insegnare. Gli allievi costringono a moltiplicare l’uno per tanti, una moltitudine, che, in quanto tale, è sempre diversificata, come sempre differenti sono i lettori. Cui si indirizza un messaggio in codice, inserito in una bottiglia. La traduzione, a mio avviso, è una operazione creativa letteraria. Il traduttore è un po’ come un direttore d’orchestra. La creatività permea la traduzione, che è una forma di critica letteraria. Credo, infatti, sia difficile imbrogliare un traduttore. La traduzione è, sì, un fatto empirico: ci permette di entrare nell’officina creativa da cui ha tratto origine l’opera d’arte. Nel processo sotteso all’atto del tradurre, in cui conta tutta la storia esistenziale e culturale precedente. Vi è empiria, e non teoria. Si può parlare solo dopo la traduzione». Quanto alla polarizzazione dei concetti di ‘libertà’ e ‘fedeltà’, Magris ha dichiarato: «il traduttore trova la sua personalità attraverso il modo in cui riesce a far vivere quel testo, nella modalità in cui sa renderne la forza travolgente. Da parte mia, redigo sempre una lettera ai traduttori, in cui, oltre che a dare loro delle indicazioni (ad esempio, se cito una frase di Proust, cito anche l’opera di riferimento, per il traduttore), li esorto all’autonomia e alla libertà, perché credo fermamente che il mio lavoro sia il lavoro di tutti. Evito, infatti, un atteggiamento di stampo pedagogico. Sostengo che le difficoltà del testo debbano rimanere tali anche nella traduzione. Questo perché l’incontro con un libro è come un incontro fra due persone: ci si può anche non capire».
E quanto al ritmo nella traduzione? «A tal riguardo, penso sempre all’Éducation sentimentale di Flaubert, al respiro, alla musica, al ritmo che scende, trasformando il testo. In una traduzione che non contiene errori ci possono essere delle perdite irreparabili, date proprio da un’inesatta dialettica fra giudizio storico e musica dello stile. Ogni lingua ha la sua musica, e il ritmo è la cosa più importante. Credo sia molto rilevante il fatto di riconoscere il testo: se si traduce bene, l’autore dovrebbe riconoscere quel testo. C’è, poi, un discorso più complesso, che concerne le traduzioni transculturali, in cinese, ad esempio. I termini generali di riferimento vanno mantenuti o si deve trovare un corrispettivo? Il desiderio di ogni autore risiede nel fatto che un traduttore capisca l’esperienza magmatica di sentimento che sta dietro il processo di stesura del testo. Da parte mia, scrissi due pagine intere per esprimere cosa stesse dietro il mio ‘sentimento della sera’! (ride, n.d.r.). L’empatia, insomma, è nei confronti del testo. E del modo in cui viene raccontato ciò che viene raccontato. Più che con l’autore. È molto difficile trovare un bravo traduttore. Perché c’è sempre un grado di incomprensione, da parte dell’autore, rispetto ai propri testi. Anche se è vero che, qualche volta, il traduttore coglie in castagna l’autore, che, però, resta l’auctoritas. Nonostante vi sia, a volte, un senso di intraducibilità. Ma l’invito di Joyce è rischioso, alquanto, perché autorizza a tutto. Al non senso del comunicare».
«Bože moi! Che piedi freddi aveva, ma questa doveva finalmente essere Paestum, qui c’è il vecchio albergo, il nome, che strano, mi tornerà subito in mente, ce l’ho sulla punta della lingua, soltanto non le veniva in mente (…)». La Bachmann avrebbe dovuto passarlo sul suo ‘rullo’ linguistico. Ma forse non bastava. Ne sarebbe servito un altro. Transculturale.