Portare a casa la porchetta, una profonda tradizione umbra
di Albert Stumm
A Grutti, non sono certo l'imponente fortezza del XIII secolo o la vicina chiesa di Sant'Agnese che colpiscono per primi. Neppure il mosaico di campi giallo-verdi che si distende nella valle alle loro spalle, che ondeggia e si scaglia su uno sfondo montuoso.
E' il vento che colpisce. Perché in questo paesino umbro che conta 500 abitanti, il vento porta con sé un inebriante miscuglio di aromi di maiale dalla pelle croccante che danza con un non so che di erbaceo e intenso, forse l'allium. Un profumo d'inverno e allo stesso tempo d'estate.
Vengo in Umbria per la porchetta, un maiale intero arrostito, una tradizione con radici pre-Romane. Si tratta di cibo senza sofisticherie: un enorme maiale disossato, ricoperto e ripieno con erbe aromatiche, una manciata di semi di finocchio freschi e carne a pezzi, poi arrostito su uno spiedo finché la pelle non scricchiola e il grasso non sgocciola da far venire l'acquolina.
In questa regione la porchetta è un segno distintivo persino più del barbecue nell'America del sud. Cartelli scritti a mano la pubblicizzano sulle vetrine delle macellerie di ogni paese e sulle bancarelle ai bordi delle strade circostanti.
La maggior parte di questi cartelli indica Grutti. Da queste parti, Grutti è sinonimo di porchetta.
Qui almeno quattro famiglie vivono interamente dalla porchetta, venduta nei panini o al chilo, in occasione dei mercati settimanali nelle vecchie piazze di paese in tutto il centro Italia. Alcuni hanno cominciato un secolo fa con un carretto e un asinello. I food truck di un tempo.
E hanno clienti insaziabili. "Qualsiasi tipo di festività si stia celebrando in famiglia, in qualche modo prevede la porchetta", afferma Elisa Benvenuta, vice sindaco del comune di cui fa parte Grutti. "Non esiste matrimonio, battesimo o compleanno senza porchetta".
Mi conduce a due passi dal castello presso il laboratorio tenuto dai cugini, maestri di quarta generazione nella produzione di porchetta, i quali hanno macellato i loro primi maiali all'età di 11 anni. All'interno, Luca Benedetti è impegnato ad affettare le costate da un maiale di quasi un quintale disteso su un tavolo di acciaio inossidabile. Al termine del suo lavoro, le costate spiccano come una fila ordinata di promontori paralleli.
Il processo di disossatura è un'attività brutale, una combinazione di tagli precisi, colpi e raschiamenti inquietanti che danno vita a quella vecchia citazione politica secondo cui è meglio non vedere come viene fatta la salsiccia. Luca afferma che tale processo è importante soprattutto per una questione di esposizione e praticità; quella mattina hanno servito centinaia di persone a Perugia, facendo a gara con altre otto bancarelle di porchetta.
Strofina sulla carne un pesante strato di sale e pepe, tanto quanto basta per solleticare il naso di chiunque nell'ambiente, e mette le mani a coppa per farlo passare nei tagli profondi delle parti più doppie. Poi, per un profumo di foresta verde ricorre al rosmarino selvatico e ai semi di finocchio procurati nella valle. In seguito, lo zio Mauro tira fuori mucchi di erbe per poterne sentirne gli odori separatamente e poi tutti insieme, una lezione sugli aromi che mi riporta indietro alle cene di festa durante la mia infanzia.
Successivamente uno spesso rivestimento di erbe, mescolate con aglio tritato, finisce nella cavità insieme a un ripieno di fegato e altre frattaglie condite. Luca avvolge immediatamente la bestia intorno a un'asta di metallo e la cuce con un ago ricurvo di circa 20 centimetri che suo nonno fabbricò dal rebbio di un ombrellone negli anni '70. "Un tempo erano fatti di acciaio buono, perciò sono la cosa migliore da utilizzare", afferma. "Questi sono i segreti".
Il maiale, con la testa ancora attaccata, viene introdotto per due ore all'interno di un forno industriale molto caldo al fine di rendere croccante la sua pelle, poi viene abbassata la temperatura e lasciato per altre otto ore. Il maiale si cuoce nel suo stesso brodo.
Troppo tempo da attendere per farne un assaggio. Invece, Mauro si concentra su una porchetta già aperta e se ne prende cura per assemblare panini farciti con pezzi di ogni sua parte. La chiave sta nel mettere un po' di tutto, pelle croccante, costata succosa, pancetta grassa e ripieno verde e minerale, tutto in un unico morso.
Noi mangiamo in silenzio, masticando e annuendo in senso di approvazione mentre mi meraviglio di quanto un arrosto del giorno prima in un panino secco possa essere così sufficientemente umido. Forse è questo il motivo per il quale, secondo gli studiosi che hanno letto attentamente i testi medievali, la porchetta viene fatta più o meno nello stesso modo sin dai tempi della dominazione etrusca in questa area 2.500 anni fa.
Malgrado le radici storiche, la porchetta è difficilmente ancorata nel passato. La sua popolarità sta di fatto aumentando grazie sia a un mutamento verso il movimento Slow Food sia alla trasformazione della nostra società. Genitori in carriera impegnati, spesso, prendono un chilo di porchetta durante la pausa pranzo per preparare una cena semplice in famiglia. "Oggi gli Italiani sono diventati come gli Americani" afferma Mauro. "Siamo sempre di corsa, frenetici e stressati".
A pochi chilometri da qui, a San Terenziano, dove un nuovo festival annuale chiamato Porchettiamo sta ottenendo un gran successo, Maurizio Biondini sta guidando l'evoluzione dello street food di quello che un tempo era deriso come un panino per muratori. Insieme a un amico ha creato il suo carretto la Focaracceria Umbra a partire da una combinazione alternativa di una vecchia motocicletta e un carro allegorico di Carnevale.
Anche Maurizio ha imparato a macellare la carne all'età di 11 anni e all'interno del laboratorio a temperatura controllata dove stagiona le cosce in prosciutto e le guance in guanciale, mostra tutte le tecniche tradizionali per tagliare, riempire e arrostire una porchetta. Se non fosse che lui serve la sua porchetta su una focaccia di burro senza sale, uno spostamento iconoclastico in sé, con formaggio pecorino e cremoso lardo aromatizzato al tartufo, pepe o timo. Il panino caldo scioglie il tutto in un'untuosa fuoriuscita di erbe e grasso, ma lui resta modesto.
"Non sono il migliore", dice. "Sono diverso".
Mi invita a cena con i suoceri a Grutti, dove il padre ha una macelleria. Ci sediamo vicino al belvedere sotto un pergolato di vite mentre la valle comincia a tingersi di arancio come il tramonto. Il tavolo si riempie di fiori di zucchina e foglie di salvia fritti, melone avvolto in fette di prosciutto di Maurizio, poi è la volta di tagliatelle fatte in casa con asparagi selvatici per concludere con uno spiedo di costolette di maiale arrostite, lonza e fegato avvolti in foglie di alloro. Il tutto accompagnato con vino in bottiglie le cui etichette sono consumate dal tempo.
Quasi tutto ciò che è in tavola viene dalla valle al di sotto, come accade da migliaia di anni.