I mostaccioli di Jacopa De'Settesoli
di Marilena Badolato
ALL’INIZIO FU IL MOSTO. Intriso con farina e poco altro. Regalava all’impasto quella componente zuccherina così preziosa. Il mosto, che non diventerà mai vino, rappresentava lo stato primordiale della bevanda, più vicino e simile al succo di quell’uva che con la vite appariva nelle rappresentazioni iconografiche religiose che al vino vero e proprio: uva, il frutto della vite e del lavoro dell’uomo. Il mosto era facile da utilizzare e così alla portata di tutti, delle case contadine e di quelle aristocratiche. Bolliva a lungo e si restringeva diventando denso e sciropposo e si impiegava come condimento dolce nel momento storico in cui lo zucchero scarseggiava. Così i mostaccioli, in origine tipici del periodo della vendemmia, erano fatti con la pasta di pane, miele, mosto d’uva e anice. E in una versione più ricca facevano parte del menù dei giorni di festa. “Intridi un moggio di farina con il mosto, aggiungici anice, cumino, due libbre di grasso, una libbra di cacio e quando avrai impastato e dato la giusta forma, cuoci sopra foglie di lauro” scrive Marco Porcio Catone nel suo trattato“ De agricoltura” a proposito dei “mustacei”, focacce dolci cotte su foglie di lauro a donare aroma, dedicate nell’antica Roma agli sposi, tra gli ingredienti delle quali figurava il mosto cotto in segno beneaugurante di fertilità e fortuna. Per tradizione erano offerte anche ai convitati al momento della partenza, un ultimo segno di attenzione all’ospite che si congedava. Ma nella Roma antica si conoscevano anche dei biscotti simili con il nome di “mortarioli“, a base di miele e mandorle pestate nel mortaio, da cui il nome. Ed è molto probabile che le due preparazioni a un certo punto si fossero incontrate e fuse in una accattivante contaminazione, linguistica e culinaria. I mostaccioli avevano una forma obbligata, importante. Erano romboidali e di una grandezza che sfiorava circa i dieci centimetri. La forma a losanga dei biscotti, di cui esistono ancora oggi collezioni di antichi stampi, sta a significare, nel triangolo doppio che contiene, la dualità delle energie maschile e femminile, alfa e omega. Il simbolo del rombo appare in ogni epoca, cultura, tradizione spirituale con il significato di “autentico”, “immutabile”, “indistruttibile”, “indomabile”. La geometria sacra del Medioevo e Rinascimento include la forma romboidale anche nella costruzione delle cattedrali: unendo la perfezione delle forme geometriche con la scelta oculata del posizionamento sul terreno, con l’orientamento in funzione delle stelle e dei momenti cosmici, con le proporzioni e con il simbolismo, i costruttori delle cattedrali medioevali tentarono di riunire l’uomo a dio.
GLI INGREDIENTI dei mostaccioli riportano chiaramente al periodo storico medievale e al significato a loro attribuito. Oltre al mosto, così importante da regalare il nome al biscotto, sicuramente si sarà aggiunto il miele, largamente utilizzato nelle preparazioni dolci e quella frutta secca così presente nella nostra penisola. Il mondo delle api era visto come un microcosmo perfetto, gestito con una organizzazione capillare e il loro prodotto, oltre che come prezioso dolcificante, era consumato anche per le sue proprietà medicali sin da tempi antichissimi. Le mandorle, poi, trovavano grande impiego nel Medioevo in quel “biancomangiare”, una sorta di odierno latte di mandorla che aveva il compito, con il suo colore bianco virginale e la natura vegetale, di sostituirsi al latte di origine animale e accompagnare i piatti dei giorni di astinenza di un calendario liturgico da rispettare. Si saranno aggiunte anche quelle spezie, in primis l’anice dall’antico utilizzo, digestiva e si pensava afrodisiaca se accompagnata al miele, e il più comune pepe e la più preziosa cannella l’uso dei quali era molto diffuso perché ritenuti secondo i dettami galenici “riscaldanti” e quindi equilibranti diete povere o a base di alimenti considerati “freddi”.
NON MERAVIGLIA quindi la straordinaria diffusione dei mostaccioli su tutto il territorio nazionale: essi ci riportano direttamente alle origini della nostra storia. Citano i mostaccioli anche Giovenale e Cicerone, e quest’ultimo crea il famoso detto: “laureolam in mustaceo quaerere” ossia “ottenere la gloria a buon mercato” a significarne la semplicità di esecuzione e la diffusione. Il mostacciolo era infatti molto diffuso nella Tuscia Romana anche come dolce rituale natalizio: tipico per questa zona l’uso di particolari “stampi”, normalmente in legno molto duro, cesellati più o meno artisticamente, per imprimere nella superficie del dolce motivi a carattere religioso, ma anche veri “marchi proprietari”, stemmi di famiglia, simboli di pace oppure semplici o più elaborate decorazioni geometriche, floreali, raffigurazioni di animali, reali o di fantasia. Esiste ancora oggi una collezione di stampi di mostaccioli, un centinaio e tutti rigorosamente documentati, che hanno suscitato l’interesse di importanti istituzioni culturali-etnografiche, come il Museo Nazionale Arte e Tradizioni Popolari di Roma. Alcune ricette di mostaccioli le troviamo in quaderni conventuali, a testimoniare il ruolo svolto dai monasteri femminili nello sviluppo dell’arte dolciaria. Infatti dal XIV al XVIII secolo, prima della nascita delle vere e proprie pasticcerie, i principali dolci che si preparavano nel territorio dove sorgevano i monasteri erano molto spesso rielaborati dalla competenza e dalle abili mani delle suore.
Rimangono ricette di mostaccioli anche nei primi ricettari dei cuochi di corte. Il cuoco rinascimentale Cristoforo Messisbugo scrive nel 1557: “A fare mostazzoli di zuccaro. Piglia di cedro confetto[…] Poi farai i mostazzoli grandi e piccioli”, una ricetta di biscotti preparati con miele, farina, cedro candito, noce moscata. Sbriciolati erano persino utilizzati come rinforzante di sapore per una famosa torta di Bartolomeo Scappi, “cuoco segreto” cioè personale di Papa Pio V, al gusto di melone di Cantalupo. Mastro Bartolomeo Scappi, alla fine del XVI secolo, ci indica l’uso di “un’oncia e meza di mostaccioli napoletani fatti in polvere” anche nella ricetta “per fare torta con diverse materie, da Napoletani detta pizza” (Opera di M. Bartolomeo Scappi, Maestro dell’Arte del Cucinare, divisa in sei libri. Libro Quinto, Delle Paste, Cap 121. In Venetia M.DC.X. Presso Alessandro Vecchi).
Alla fine del 1600 Antonio Latini, a Roma al servizio del cardinale Antonio Barberini, nell’opera “Lo scalco alla moderna […]” descrive mostaccioli con cedri canditi, mandorle e una glassa di zucchero alla cannella. Vincenzo Corrado, cuoco napoletano del XVIII secolo, nel “Credenziere del buon gusto – La manovra della cioccolata e del caffè” non solo attesta l’uso del mostacciolo per aromatizzare la “salsa al agrodolce” o la salsa fredda di acciughe, ma ne raccomanda anche una glassa di copertura di naspro, uno zucchero fondente, al cioccolato. Nel suo trattato indica anche due diversi tipi di mostacciolo: quello con cannella, chiodi garofano e noce moscata e l’altro con cedro candito, mandorle ed un pizzico di pepe. I ricettari ottocenteschi ne offrono numerose versioni. Nel 1810 Michele Somma di Nola descrive un mostacciolo fatto con farina, zucchero, mandorle e coperto di cioccolato. Ippolito Cavalcanti nella sua “Cucina teorico-pratica”, opera pubblicata per la prima volta a Napoli nel 1837, fornisce un’ennesima ricetta del “mustacciolo”. Giovan Battista Marzano nel suo “Dizionario etimologico” del 1928, così li definisce: “i mostaccioli sono dolci caserecci fatti con farina, miele, mosto cotto, conditi di droghe, in forma romboidali o a pupattoli, panieri e simili.” Oggi, praticamente quasi ogni regione italiana ha elaborato una propria ricetta di mostaccioli, quelli più vicini alla tradizione antica sono probabilmente i laziali e gli abruzzesi, a base di farina, miele e mosto cotto; i pugliesi, che però utilizzano il cotto di fichi al posto del mosto ed i ben noti “mustazzola” di Ragusa, in Sicilia, preparati con farina, vino cotto e poi irrorati di miele fuso e mandorle tritate. Ma li troviamo persino in Germania: i “lebkuken”, dolci tipici di Norimberga, hanno un impasto simile e sono ricoperti di glassa zuccherina o di cioccolato fondente. Al primo assaggio la cioccolata fondente che li ricopre lentamente si scioglie e cede il passo alla dolce e morbida pasta con il miele, poi alla cannella ed infine a quei piccoli pezzi di mandorla che suggellano un matrimonio di gusto. E ancora, come ricorda l’antropologo Martino Michele Battaglia, i mostaccioli di Soriano Calabro, che venivano usati dai fedeli come ex-voto anatomorfi (braccia, seni, gambe, cuori, piedi, mani e così via) in numerosi Santuari calabresi e in tutto il Mezzogiorno, spesso eseguiti anche su commissione. Molto diffusi anche i soggetti zoomorfi, mentre quelli a forma di esse sono un simbolo arcaico che voleva rappresentare il serpente a due teste, amuleto portafortuna. Molto simili sono anche le “susumelle” calabresi, preparate con farina, zucchero, mandorle e miele e aromatizzate con cannella, pepe, noce moscata, prodotte soprattutto nelle zone di Reggio Calabria, Catanzaro, Crotone e Vibo Valentia. Ovviamente i mostaccioli, secondo l’antica ricetta e in nuove versioni, vengono da sempre preparati ad Assisi, rinnovellando la passione di San Francesco verso l’uso di ingredienti semplici e genuini e l’affetto di una vera amicizia fraterna verso Jacopa de’ Settesoli, nobildonna romana, che li aveva preparati al santo e ai sui confratelli durante il loro soggiorno a Roma.
COSI’I MOSTACCIOLI, di antica tradizione, entrando nella grande storia francescana diventano universali. Acquistano quella significazione primigenia che avevano di dolci delle nozze e del commiato agli ospiti nel momento della loro partenza. Diventano i dolci delle nozze di Francesco con “sora morte corporale” e del commiato di Francesco da una amica fraterna, Frate Jacopa, come memoria perenne di chi non c’è più. Di un santo che ha amato la vita terrena come quella celeste. Anzi trasformando la vita celeste in quella terrena creata da Dio per le sue creature. Questo è il grande messaggio innovatore, questa è la grande scoperta rivoluzionaria di Francesco: un Dio che ama tutto il Creato e si manifesta attraverso le creature. E attraverso anche i loro sentimenti, le emozioni, persino il gusto, l’atto finale complesso e completo legato a tutti i sensi che Francesco non cancella anzi esalta. Si tramanda che Jacopa arrivò appena Francesco, ormai in punto di morte, ebbe terminato di dettare la lettera a lei indirizzata. “Aprite le porte e fatela entrare, perché per frate Jacopa non c’è da osservare la clausura stabilita per le donne”e Francesco, lui per primo, dicono i Fioretti, ebbe “grande allegrezza e consolazione nel vederla” e i frati furono stupiti da quella venuta. Il particolare storico, secondo cui Jacopa portò alla Porziuncola, senza aver ricevuto ancora la lettera, esattamente ciò che nella lettera era richiesto, è legato ad una “ispirazione” che ella ebbe, come più chiaramente si esprimono i Fioretti. Questa rappresentazione amicale è documentabile con un altro, sorprendente particolare. Jacopa porta anche “altre cose, per fargli quel dolce” che Francesco era solito mangiare da lei. Così era scritto nella lettera. Potrebbe sembrare strano che il santo pensi, in punto di morte, ai dolci. Ma Francesco è profondamente assimilato alla vita del cosmo intero, basti pensare al suo “Cantico delle creature”, dove è “amico” dello stesso “frate corpo” dove dice “ecco, ora sono pronto a soddisfare i tuoi desideri”. E tra i desideri da salvaguardare e di cui raccomanda sempre anche ai suoi fratelli, vi è quello del buon nutrimento e della sana materia prima che la Natura regala. E il morente fu “molto confortato” mangiando di quei pasticcini, di cui, è scritto, egli poté mangiare solo “ben poco”. La differenza tra il “poco” e il “molto” è indicativa di un conforto affettivo: Jacopa infatti è colei con cui condividere le ansie, le aspettative, le speranze dell’Ordine francescano, oltre a connotare la dimensione reale in cui i seguaci “laici” del francescanesimo si inscrivono. In lei si coglie il senso più autentico dell’amicizia fraterna.
I MOSTACCIOLI entrano così di diritto tra le “sante pietanze” ricordati e assimilati alla storia di Francesco d’Assisi. Le gustose preparazioni le cui origini sono da ricercare in luoghi lontani, testimonianze di usanze radicate nel tempo e legati alla devozione popolare. Del resto ricette e preghiere hanno in comune la ripetizione, ogni volta identica, di una pratica che può definirsi rituale. Così il legame tra il culto dei santi e le specialità alimentari rivela il rapporto tra gola e preghiera, che celebra i momenti felici e quelli meno felici, come le lunghe veglie funebri che affratellavano, tra pietanze e litanie, i presenti. Così il cucinare e il mangiare possono diventare, sorprendentemente, manifestazioni di fede. Ancor più se li troviamo, come nel caso di Francesco, direttamente citati già nelle vita del santo, a lui presenti, e non creazione postuma a lui dedicata. Infatti biscotti, dolcetti e pani spesso, già nei loro nomi, evocano il martirio o la vita del santo. Cibo diventa allora prece e ricordo, con mille varianti popolari. Dove le componenti sacre, immancabilmente, si mescolano a quelle profane. E scrivono una nuova storia. “A donna Jacopa, serva dell’Altissimo, frate Francesco, poverello di Cristo, Salute nel Signore e Comunione nello Spirito Santo. Sappi, carissima, che il Signore benedetto mi ha fatto la grazia di rivelarmi che è ormai prossima la fine della mia vita. Perciò, se vuoi trovarmi ancora vivo, appena ricevuta questa lettera, affrettati a venire a Santa Maria degli Angeli. Poiché se giungerai più tardi di sabato, non mi potrai vedere vivo. E porta con te un panno di colore cenerino per avvolgere il mio corpo e i ceri per la sepoltura. Ti prego anche di portarmi quei dolci, che tu eri solita darmi quando mi trovavo malato a Roma“.