Il fascino e il suono delle mie chitarre di ceramica
di Claudio Sanpaolo
TESTATA: giornaledellumbria.it
DATA DI PUBBLICAZIONE: 4/11/2013
Giovanni Andreani, ceramista derutese, fabbrica chitarre uniche al mondo, ma solo quando Carlos Santana l’ha usata durante Umbria Jazz, ha capito che la sua idea aveva fatto centro. «Il loro valore di mercato è 12mila euro l’una, ma per cominciare a venderle aspetto la perfezione. E intanto ho imparato a dire molti no anche a offerte esorbitanti…»
C’era un ragazzo che come noi amava i Beatles e i Rolling Stones, ma anche Jimi Hendrix, Led Zeppelin, Pink Floyd, Nirvana e Guns N' Roses, il rock, le chitarre e le canzoni, che “sono nell’aria e nascono da sole” (Vasco). Come quelle che arrivano dalla bottega di Giovanni Andreani, che non girava il mondo e non veniva dagli Stati Uniti d’America, ma da Deruta, dove dieci anni fa, da ceramista provetto, ha avviato una impresa un po’ folle e un po’ rivoluzionaria: sfidare se stesso, il tran-tran dei soliti pezzi esposti nella bottega e costruire una chitarra elettrica tutta di ceramica. Non da appendere al muro come un qualsiasi oggetto da collezione, ma proprio per suonare. Funzionante.
E la follia è riuscita talmente bene che ora di chitarre ne ha assemblate 9 (“e la decima l’ho regalata a Carlos Santana, che due anni fa l’ha usata nel suo concerto a Umbria Jazz”), tutti pezzi esclusivi, una tipologia che così fatta non esiste al mondo, con il corpo in ceramica che è un blocco di argilla unico, dipinto a mano con soggetti rinascimentali, il manico di mogano e palissandro, gli inserti sulla tastiera in madreperla. E in alto, su una minuscola piastrellina intarsiata nel legno, le iniziali del suo nome, più da 007 che da Beatles (GA1, GA2, GA3…), la firma, la data di produzione. Come un’opera d’arte.
Che quella di Giovanni sia una bottega speciale lo si capisce prima da lontano, ascoltando l’inconfondibile “bleng-bleng” della chitarra elettrica che risuona e rimbalza sulle pareti “ceramicate” del paese, poi entrando: chitarra in vetrina, amplificatore in posizione strategica, altre chitarre esposte sul tavolo, con tanto di cartello “non toccare e non fotografare”. E lui che suona, suona sempre, basta un attimo, attacca il jack, improvvisa due accordi, li registra pigiando la pedalina del loop e poi parte, col sottofondo ritmato che ripete quelle note.
«… ho messo insieme le mie due passioni, la musica e la ceramica, sbocciate tardi, ma evidentemente ben presenti dentro di me. Del resto uno di Deruta che non fa il ceramista e che addirittura prende per la prima volta in mano il pennello a 26 anni è quasi una rarità. Io suonavo in un gruppo (“Quintaessenza”), anzi ero il chitarrista, ma non saprò mai se questo mestiere è una evoluzione dell’altro, o sono le facce della stessa medaglia. Tanto è vero che le mie chitarre non sono ancora in vendita, le costruisco e le tengo lì, aspetto di arrivare alla perfezione tecnica, strutturale ed acustica, poi ci penserò. E magari riprenderemo anche a suonare con la band. L’abbiamo fatto nel luglio scorso, qui in paese, durante la notte bianca ed è stata una bella esperienza».
Torniamo un attimo indietro: un derutese che non si appassiona alla ceramica, cosa voleva fare da grande, il chitarrista?
«No… forse nemmeno quello. Certe cose prima di venire fuori devono maturare. In famiglia c’era sì mia madre Novella che ha sempre fatto l’operaia in una fabbrica di ceramica, mentre papà Augusto è un elettricista, ma nessuno mi ha spinto verso questo lavoro, anzi ho preso il diploma da ragioniere e per un po’ di tempo ho provato con i lavori più disparati. Se penso ai sei mesi passati in una azienda che lavorava il pollame mi vengono i brividi. Cose tipo aspirare le interiora dei polli morti con una pistola, maneggiarli, prepararli per il confezionamento non è stato uno spettacolo esaltante. Lì mi sono guardato intorno, e visto che eravamo pur sempre a Deruta ed avevamo un locale bello grande sotto casa ho deciso di aprire bottega».
Fosse facile… come si comincia da zero? Soprattutto cosa si vende?
«Riempire gli scaffali è stata la cosa più semplice, ho comperato da altri. Ma per poter fare cose mie mi sono affidato a zio Franco, uno che ha imparato questo mestiere quando a Deruta c’erano solo due ceramisti e si apprendevano tecniche di grande qualità. Diciamo che lui mi ha insegnato proprio tutto, cominciando col “presentarmi” il pennello, passando al disegno del “Raffaellesco” (i due draghi stilizzati) e del “Ricco Deruta”, i nostri classici, dell’“Arabesco” (foglie e uccellini) e dell’“Orvietano” (galletto e foglie verdi), per finire alla cottura. I primi oggetti tutti miei li ho fatti dopo un anno, un tempo molto breve a sentire chi se ne intendeva, cioè lo zio, che ha rassicurato anche i miei. Questo figlio che ancora sembrava indeciso sul suo futuro, aveva forse trovato la sua strada. Era il 1999, qualche anno dopo, nel 2003, ho cominciato a pensare alla chitarra di ceramica».
Nel frattempo la sua band come andava?
«Bene, anche se tra i naturali alti e bassi di un gruppo che certo non sbarcava il lunario con questa attività. Qualche concerto, il tentativo di incidere un Cd tutto nostro, fermato a 6 canzoni, che però, postate su “Myspace” hanno avuto una buona risposta. Nel frattempo il negozio funzionava ed ho sentito la necessità di creare qualche oggetto particolare, esclusivo. La chitarra è stato il primo pensiero: ho smontato e sezionato la mia Fender Stratocaster, l’ho studiata nei minimi particolari, ed ho iniziato a lavorarci. Perché non bastava essere un ceramista, occorrevano nozioni di liuteria, applicare regole matematiche ferree per evitare che stonasse, usare il calibro elettronico per mettere i tasti di nichel al posto giusto, nemmeno un millimetro più avanti o più indietro. È stata dura, ma il 10 febbraio del 2005 la GA1 è uscita dal laboratorio, pesava sei chili e mezzo, cioè troppo, ma quando ho cominciato a strimpellarla mi sono emozionato, così come nel vedere la qualità estetica, la brillantezza dei colori riprodotti sulla ceramica. Sì, c’ero riuscito. Per le altre è stato molto meno difficile, ho apportato aggiustamenti, ridotto lo spessore dell’argilla, pur dovendo fare i conti con numerose rotture durante la cottura, e sono arrivato a fabbricare chitarre di 4 chili. L’ideale per non farsi “tagliare la spalla” dopo aver suonato due canzoni. Una Fender normale pesa esattamente da 3 chili e mezzo a quattro».
Come andò con Santana?
«Mi contattò l’organizzazione di Umbria Jazz, che aveva visto un servizio in tv, su Bell’Italia. Voleva che mostrassi le mie chitarre a Carlos, ma per una serie di circostanze riuscimmo a vederci solo mezz’ora prima del suo concerto. Ne avevo portata una sola, per regalargliela. Ero emozionatissimo, dissi qualcosa del tipo “ecco questa è per lei…”, lui se la rigirò tra le mani stupito, poi mi disse “bella, stasera ci suono”. E lo fece con “Open Invitation”, una canzone che dura 9 minuti e mezzo. Poi so che l’ha usata in un concerto a Bari, ma di persona non l’ho più rivisto. Mi ha mandato i ringraziamenti dal suo manager ed una domanda sintomatica: voleva sapere il valore della chitarra perché la doveva assicurare. Segno che ancora ce l’ha a casa sua e che ci tiene, no?».
A proposito: se le volesse vendere, quale sarebbe il valore di mercato?
«Circa 12mila euro l’una, ma inizierò a commercializzarle quando saranno perfette. Intanto, tenendole qui controllo la struttura che va verificata nel tempo, ogni tanto cambio qualcosa. L’ultima, fatta dieci giorni fa, è diversa da tutte, di legno con inserti in ceramica. Penso di poterne costruire 4-5 l’anno, non di più. Per ora mi sto abituando a dire molti no: ad una signora americana che la voleva per una sua collezione in stile country, da appendere come un quadro; ad un russo che avrebbe fatto carte false per averne una e si presentò coi soldi in contanti, persino ad Allan Clarke, chitarrista dei “The Hollies”, gruppo rock degli anni ’60. Non lo conoscevo, è arrivato qui come turista, mi ha chiesto solo se poteva suonare. Beh, ho capito subito che non era uno qualsiasi, poi ho visto su YouTube che aveva suonato in numerosi concerti assieme a Beatles e Rolling Stones. Quasi un mito, ma non l’ho venduta nemmeno a lui. Ha detto che ripasserà… e dico no anche a chi vorrebbe che costruissi violini, basso elettronico, persino chitarre acustiche. Solo una volta ho vacillato, con un miliardario americano che la voleva per il figlio. Gliel’ha fatta provare, se n’è andato, poi è tornato… “dica qualsiasi cifra”. E io “cinquantamila euro”. Mi ha allungato la carta di credito, ma ho fatto finta di non capire…».