Formaggio e yogurt bio se adottate queste pecore
di Claudio Sampaolo
Articolo vincitore
TESTATA: Il Giornale dell'Umbria
DATA DI PUBBLICAZIONE: 31 maggio 2014
Antonio Meloni, assieme al fratello Marco ha messo in piedi una fattoria biologica che in soli cinque anni è arrivata ad una produzione di qualità, con in testa uno yogurt considerato una vera eccellenza nazionale
Il pastore del Terzo Millennio ha sempre (quasi) inevitabilmente origini sarde, ma parla con un deciso slang perugino, ha un gregge di 250 capi che brucano su 50 ettari di terreno, circondato da recinti virtuali e controllato con satellite e Gps, inventa l’adozione a distanza di pecore, agnelli e montoni, con tanto di certificazione, foto spedita a domicilio e persino la possibilità di chiamarle al cellulare attaccato al collare, usa facebook come fonte principale di comunicazione e soprattutto produce yogurt (yobèè…), accanto ai tradizionali ricotta e pecorino da latte crudo, in una fattoria biologica dove additivi, addensanti e concimi trovano disco rosso.
A Fontemanna, un chilometro sopra Colle San Paolo, la piccola azienda messa in piedi dai fratelli Antonio e Marco Meloni, sulle orme di papà Salvatore e di mamma Gesuina, arrivati dalla Sardegna, da Sarule, Barbagia, 40 anni fa portandosi dietro 300 pecore a bordo del traghetto, in cinque anni si è fatta un nome e una credibilità.
Anzi, secondo Antonio Andreani, che insegna “antropologia degli alimenti” presso l’Università dei Sapori e che ha censito pastori e “fabbriche del latte” dell’Umbria, a Fontemanna si produce “uno degli yogurt di pecora più buoni d’Italia”.
Possibile? Possibile. Tanto che il piccolo frigo del piccolo shop del piccolo caseificio alle cinque del pomeriggio ha quasi esaurito l’ultima produzione.
«Abbiamo iniziato da poco con lo yogurt da latte di pecora, che è molto meno acido di quello vaccino. Prima bianco, poi col miele di un nostro vicino apicoltore, adesso con molti altri gusti alla frutta: limone, fragola, frutti di bosco, cereali, pesca melba e l’ultimo arrivato, l’ananas. Per fortuna la qualità tira ancora ed il passaparola fa il resto. Produciamo una quantità non eccezionale, ma va via tutta, un po’ qui, un po’ nelle botteghe alimentari, anche a Perugia, nei ristoranti dove sul menu viene certificata tutta la filiera produttiva e dove i nostri prodotti biologici a chilometri zero sono molto apprezzati».
Antonio, 30 anni, è quel che si dice un ragazzo con le idee chiarissime: lavora il terreno, è il casaro assieme alla mamma, si occupa della distribuzione; Marco (38 anni) segue un po’ più il web e l’innovazione.
«È stato lui che ha inventato il ‘Belefono’ – sorride Antonio - in pratica un microtelefono cellulare che abbiamo inserito nel collare della pecora, che risponde automaticamente al primo squillo e rimanda l’audio in diretta. Se si è fortunati si può sentire belare o brucare. Di certo è una idea di marketing legata a quella dell’adozione a distanza ed al controllo virtuale del gregge. Perché invece di avere pastori che stanno ore e ore vicino alle pecore abbiamo seguito una metodologia più innovativa, mettendo al collare un Gps e tracciando i confini su una mappa di Google map. Così sappiamo esattamente quando il gregge sconfina, un software ci avvisa con un sms o con una mail e interveniamo. Ma succede raramente, le pecore sono abbastanza abitudinarie».
Un solo Gps per 300 pecore?
«Sì, è sufficiente. Loro stanno sempre in gruppo, dove va una vanno tutte, è difficile che qualcuna prenda strade diverse, autonomamente».
Sembra l’evoluzione della teoria della pecore nera: se ne immette una ogni 40-50 bianche. Basta ogni tanto contare quelle nere e se ne manca una significa, per induzione statistica, che bisogna cercarne anche parecchie bianche…
«Già, ma era appunto una teoria non dimostrabile. Con la tecnologia siamo più tranquilli. L’adozione a distanza, invece, è una novità per l’Umbria, ma è nata in Abruzzo, dove in presenza di greggi con migliaia di capi è diventata anche un efficace strumento economico. Qui da noi siamo ancora agli inizi, considerando che abbiamo aperto ufficialmente a gennaio 2009, ma già molte persone, soprattutto del nord, hanno aderito. Tempo fa abbiamo visto arrivare qui una famiglia di Pavia che voleva vedere di persona la pecora adottata e soprattutto se davvero esisteva o se si trattava di una scaltra operazione pubblicitaria. Se ne sono andati soddisfatti, ecco…».
Come funziona il meccanismo?
«Semplice. Partiamo dall’adozione di un agnellino, che costa 21 euro l’anno. Spediamo a casa una foto, notizie e il certificato di adozione. Un contributo che aiuterà a farlo crescere e diventare una pecora. E visto che gli agnellini non danno latte, in cambio facciamo uno sconto di un euro al chilo sui nostri formaggi ordinati tramite mail. Adottare una pecora costa invece 70 euro l’anno, ma oltre ai “gadget”, l’animale si mette al lavoro ed ai suoi amici farà avere un assaggio di formaggio, due chili tra fresco e stagionato ed una bottiglia del nostro olio di oliva bio.
Il montone “costa” invece 98 euro l’anno e farà avere 3 kg di formaggio (sempre metà e metà) e due litri di olio. Naturalmente non possiamo spedire yogurt e ricotta, ma chi riesce a passare da noi avrà comunque la possibilità di avere questi prodotti, dei cesti-assaggio inseriti nel pacchetto-adozione».
Scegliere di fare i pastori/allevatori/produttori a 24-25 anni, è un seguire la tradizione di famiglia, una specie di via obbligata o il futuro per tanti giovani che spesso si perdono alla ricerca di lavori impossibili?
«Entrambe le cose. Io e Marco siamo nati qui, ma le radici sarde sono belle presenti. Papà ha 76 anni ed ha sempre fatto il pastore, mamma ne ha 70 e sa fare il formaggio in maniera eccellente. Siamo cresciuti con loro, con la tradizione della nostra pastorizia che è molto radicata, con le feste per la mungitura e la tosatura, osservando il lavoro dei casari, imparando ad annusare gli odori del formaggio, quello duro, stagionato, che si taglia con lo scalpello, il profumo della ricotta fresca. Per anni papà e mamma hanno solo prodotto latte, anche 300 litri al giorno, per venderlo ai caseifici. Il ricavato serviva per vivere e pagare le spese. Poi il vento è cambiato, avrebbero dovuto prendere degli operai, aumentare il gregge. Allora ci siamo impegnati noi figli, deciso di cominciare a produrre formaggi, e siamo partiti, in mezzo a mille difficoltà burocratiche, licenze, controlli, mutui da pagare, attrezzature da imparare a manovrare. Solo passare dal fuoco al generatore di vapore per scaldare il latte o lavorare con il mungitore automatico è stato un bel passo avanti. Ora sono le 17, da cinque minuti ho terminato di fare il formaggio. Avevamo cominciato con la mungitura stamattina presto, poi via a portare il latte nel caseificio ed a lavorarlo senza perdere tempo. E sono felice di questo lavoro, dei risultati. Soprattutto quando vado a consegnare e vedo gente entusiasta dei nostri prodotti, che li apprezza, li aspetta. È un lavoro duro, con le sue regole, ma è quello che abbiamo scelto e nessuno ha ripensamenti».
Che significa avere una certificazione biologica?
«Seguire procedure rigorose, per dare certezze ai consumatori. Per esempio adottare con precisione la rotazione delle colture che poi le pecore mangeranno: erba medica, trifoglio, mais, orzo, granturco, favino. Evitiamo i mangimi che le spingerebbero come delle formula uno, ma che le porterebbero ad ammalarsi più facilmente. Invece, così, campano mediamente 10 anni, 5-6 dei quali costituiscono il periodo di produzione. A fine carriera si vendono, ma valgono veramente poco, 15 euro l’una, a vista, senza nemmeno pesarle. La lana? Non la vuole più nessuno e per tosarle si ricorre ad operai specializzati che arrivano dalla Nuova Zelanda. Specializzati e velocissimi, costano 1,70 euro a pecora, ma dai 2-3 kg di lana non si ricava nemmeno quello che serve per pagarli. Sul mercato il valore è infatti di 18-20 centesimi al chilo».
Nel vostro gregge c’è ancora un po’ di dna delle pecore portate qui da suo padre 40 anni fa?
«Può darsi, ma il turn over è rigoroso, ogni cinque anni, compresi i montoni, per evitare di mescolare il patrimonio genetico. E mi sa tanto che gli unici discendenti di quel traghetto partito da Olbia siamo rimasti io e mio fratello…».