Il bel mondo
di Anthony Faiola
Articolo vincitore
TESTATA: The Washington Post
DATA DI PUBBLICAZIONE: 8 novembre 2013
Siete proprio sicuri che l’Umbria sia la Toscana dei poveri? Potreste esservi sbagliati
Se questa è la vita agreste, vi assicuro che non ha nulla da invidiare alla vita di città!
Dopo una colazione che avrebbe fatto svenire Nigella Lawson — avanzi di tiramisù e un bicchiere di prosecco molto frizzante — esco dalla tenuta, che ho affittato in un grande uliveto, e imbocco un sentiero terroso che si snoda lungo il crinale delle colline appenniniche. In teoria, dovrei essere in Umbria per dare una mano nei campi, in occasione della raccolta delle olive che si svolge annualmente. Ma poiché si dà il caso che io mi trovi qui soprattutto in veste di inviato, e scrivo il mio reportage dai sontuosi giardini di un palazzo rinascimentale, sono il primo ad ammettere che, date le circostanze, l’espressione “dare una mano nei campi” è da intendersi in un’accezione oltremodo disinvolta. Va detto, comunque, che questo non è un uliveto qualsiasi, e che l’Umbria — una regione dell’Italia centrale — ha ben poco di ordinario. Insieme a uno sparuto gruppo di collaboratori pronti a sfidare i duri risvolti della dimensione rurale, mi sono trasferito armi e bagagli in questa tenuta per un vero e proprio assaggio dell’atmosfera che si respira in un “agriturismo” o turismo rurale, in una zona dell’Italia a cui qualcuno ha affibbiato l’irriverente soprannome di “Toscana dei poveri”. Dicano pure quello che vogliono. Nel frattempo, mi vedranno assaporare la Dolce Vita in stile bucolico seduto al tavolo di un vigneto umbro, davanti a un bel piatto di pasta al tartufo bianco innaffiato da un bicchiere di Sagrantino invecchiato al punto giusto, che mi costa per giunta la metà di quanto lo pagherei a Firenze.
Alla scoperta dell’Umbria
Mentre gli altri, scortati da una foltissima schiera di amici fidati, si accingono ad assediare il Palazzo degli Uffizi, potrei forse leccarmi i baffi al festival del cioccolato di Perugia, gustandomi una tazza di caffè nero fumante e fichi. Già che ci sono, potrei anche ordinare un fudge al pistacchio.
Se quei ferventi adulatori della Toscana decidessero di fare una puntatina proprio qui, in questo mattino d’autunno particolarmente bello e suggestivo, mi vedrebbero scambiare due chiacchiere con colei che mi sta insegnando l’ ”arte” della raccolta delle olive: Vittoria Iraci Borgia. La sua famiglia, che discende da una stirpe di sangue blu imparentata per un ramo con i Medici e per l’altro ramo con i Borgia, sta imbottigliando un olio extravergine d’oliva fra i più pregiati che siano mai stati prodotti in questa terra splendida e rigogliosa.
Ho detto che mi avrebbero trovato qui. Ho tuttavia omesso di specificare che non si sarebbero messi a ridere.
“Ma no!” esclama la signora Borgia, dopo un mio tentativo fallito di staccare alcune minuscole gemme verdi dal ramo su cui mi sto esercitando, possibilmente senza sventrare gli altri poveri rami della pianta. “Non così, ma così!”
“Ah, ho capito” rispondo, anche se in realtà non ho capito nulla poiché, a quanto pare, la signora Borgia è abilissima nel cogliere delicatamente le olive aiutandosi con il suo rastrellino muovendosi esattamente come ho fatto io. Dopo un ulteriore tentativo, riesco ad afferrare un’oliva riuscendo in qualche modo a schiacciarla. Penso che, se non altro, non ci vorrà la pressatura a freddo.
Me la cavo comunque meglio di un mio amico che è arrivato in ritardo a lezione, e la cui tecnica evoca piuttosto i movimenti di un gattino che si avventa contro un graffiatoio. So soltanto che, se continueremo a muoverci così maldestramente, temo che potremmo rischiare di ingaggiare una lotta a suon di olive sulla falsariga di una gag della sit-com “Io e Lucy”, dove i protagonisti tentano di pigiare l’uva con i piedi, come si fa in Italia. Imitato dai miei amici, decido dunque di accantonare il rastrellino e di raggiungere la signora Borgia, che è anche la proprietaria della tenuta, per una degustazione di oli d’oliva nel suo giardino.
Un’esperienza che cambia la vita
Proprio come la signora Borgia, che raccoglie le olive indossando un logoro maglione e un paio di comodi jeans, l’Umbria è una regione nobile, il cui nucleo rappresenta anche il sale della terra. È qui che, in epoca preromana, ha messo radici una civiltà etrusca molto evoluta, che è andata progressivamente espandendosi, e che ha reso possibile la costruzione di magnifiche città nonché la creazione di pregevoli opere d’arte, ben prima che venissero posate le prime pietre di Parigi e Londra.
Ultimamente, questa regione è salita agli onori della ribalta, in parte perché il nuovo pontefice dal piglio molto informale, con il singolare copricapo che indossa ogni sovrano dello Stato Vaticano, ha scelto il suo nome in omaggio a Francesco d’Assisi, il santo cattolico la cui città natale rientra nella nutrita schiera dei villaggi collinari umbri, che meritano un’escursione giornaliera. Ma per gli adepti di un’altra religione, che li induce a privilegiare l’altare della cucina italiana, il ventaglio di proposte che l’Umbria offre agli amanti dell’agriturismo (uliveti, fattorie e vigneti coltivabili pronti ad accogliere e a rifocillare i loro ospiti per alcune ore se non addirittura per alcune settimane) consente di imboccare una corsia privilegiata per il paradiso.
Uno degli ultimi viaggi che ho compiuto alla volta dell’Umbria, è stato un po’ come tornare a casa. Il mio primissimo sguardo sul mondo, oltre i confini dell’America, ha avuto come sfondo proprio l’Umbria. Nel 1987, dopo molte sfibranti insistenze, i miei genitori avevano acconsentito a farmi frequentare un semestre presso l’Università per Stranieri (nome peraltro azzeccatissimo) di Perugia. Da quella magica estate, i panorami brumosi dell’Appennino centrale, la cucina ruspante e l’avvolgente intimità della cultura italiana sono diventati i miei parametri di riferimento con cui valutare la qualità della vita dovunque mi fossi recato.
Una delle magiche qualità dell’Umbria (e, a voler essere sinceri, di tutta l’Italia, almeno in teoria) consiste nella capacità di trasformare una cena informale in un’esperienza che cambia la vita.
“Benvenuti!” ci salutò calorosamente Mamma, dopo che mi fui seduto, insieme a un gruppo di amici, a un tavolo del ristorante Il Cerreto — credo che sia il locale più rosa che abbia visto in vita mia — allestito in una fattoria umbra a pochi chilometri dall’antico villaggio di Torgiano.
“Mamma’” si chiama in realtà Doriana Frascarelli, matriarca nonché cuoca della cucina a conduzione familiare. Conoscendola, però, scopriamo che preferisce di gran lunga essere chiamata Mamma. E, comunque, non lasciatevi trarre in inganno da tutto quel rosa sulle pareti. Nello scantinato della fattoria, la famiglia effettua la macellazione dei maiali per ricavarne salsicce e salami, una piccola avventura di stampo gastronomico a cui sono invitati anche gli ospiti che pernottano alla fattoria, purché dotati di uno stomaco oltremodo resistente.
Il mio stomaco era comunque decisamente più interessato alla pasta, che Mamma prepara al momento su un tavolo che campeggia nella sala da pranzo, in modo che tutti possano vedere come procede. In questo locale, la cena è per così dire interattiva, nel senso che, a turno, facciamo del nostro meglio per arrotolare i famosi cerretini — una pasta corta simile ai fusilli, composta per il 70% da farina d’orzo e per il restante 30% da farina di frumento. In un impietoso déjà vu della bruciante sconfitta riportata durante la raccolta delle olive, i miei cerretini assumono le fattezze di una sottospecie di fettuccine vagamente somiglianti a gnomi schiacciati.
Ma non importa. Mentre tentiamo di infilzare alcuni frammenti di finocchio, Mamma porta in cucina i miei scampoli di pasta deforme per amalgamarli con un po’ di pancetta, pomodori e pecorino. Il risultato finale è stato amore al primo morso. Ottima cosa, visto che Mamma si è avvicinata al nostro tavolo per ben due volte, nell’intento di appurare che io e i miei amici fossimo i degni membri del circolo del piatto pulito, incalzandoci al grido di un “Mangia, mangia!” pronunciato in tono vigoroso.
Vino, vino e ancora vino
Nella campagna italiana, la cui struttura evoca per certi versi quella di una trapunta, le Colline toscane del Chianti, a dispetto della loro “allure” vagamente consunta, vengono spesso considerate come lo scorcio più bello e suggestivo in assoluto. Ma se qui avvertite un tuffo al cuore, armatevi di nitroglicerina prima di far rotta alla volta della zona preternaturale che circonda il borgo umbro di Castelluccio adagiato su un’altura.
Mentre attraversavamo il Piano Grande a bordo della nostra piccola Alfa Romeo, inerpicandoci sulla salita che conduce a quell’incantevole villaggio posto sulla sommità di una collina, lo scenario mutò repentinamente. Ai pittoreschi vigneti e alle fattorie, che costeggiano la strada, si sostituì uno scorcio panoramico che ricordava molto da vicino certi paesaggi del Montana. Quelle immagini avevano ben poco di italiano. Nei periodi più fertili dell’anno, ampie distese di fiori selvatici dalle sfumature abbaglianti fioriscono sull’altopiano, e accendono il panorama infondendogli una tonalità vivida che si estende a perdita d’occhio. In autunno, il Piano Grande cambia colore come un camaleonte, trasformandosi in un tappeto monocromatico di velluto verde.
Lo stesso Castelluccio sembra più un villaggio alpino che un borgo dell’Umbria, con i suoi ripidi sentieri di montagna e un menu gastronomico che tende a privilegiare lo stufato di lenticchie e il ragù di cinghiale rigorosamente genuini. Diamo libero sfogo al maiale che sonnecchia dentro di noi, e ci concediamo una cena a base delle pietanze appena evocate, prima di fare un tour dei negozi che vendono le specialità gastronomiche locali. Personalmente, sono convinto che tutti gli italoamericani non esiterebbero a saccheggiarli come se non avessero mai visto degli alimenti commestibili in vita loro, facendo incetta di salsicce al tartufo, biscotti e fagioli secchi da portare a casa.
Ma qui siamo in Italia, e la gente vuole bere il vino. Almeno io lo volevo bere; perciò, due giorni dopo, ci inerpicammo su per il sentiero che conduce ai vigneti di Arnaldo Caprai. Posta in fondo a una strada carrozzabile bordata da cipressi aghiformi, che le infondono un tocco di regalità, la tenuta sfoggia un panorama collinare che fa pensare a un quadro impressionista dipinto durante la stagione autunnale, con i suoi Terra di Siena bruciata e le sfumature giallo senape che punteggiano il verde dei vitigni. Siamo nella zona del Sagrantino, che sorge all’ombra della città umbra di Montefalco.
“Abbia pazienza, amico mio, abbia pazienza” si raccomandò Marco Caprai, figlio di Arnaldo nonché proprietario delle cantine. In quei locali immersi nel fresco, dinanzi ad ampi corridoi dove invecchiano i vini, egli volle tentarci, dapprima con una serie di bianchi in fase di fermentazione destinati a far parte dell’annata 2013. Però io volevo assaggiare il Sagrantino, un rosso così vivace e corposo, da potersi permettere di sfidare un Rioja e un Bordeaux in un’ipotetica competizione fra vini, e vincere a occhi chiusi.
Finalmente, sfoderando un sorriso a trentadue denti, Caprai, la cui famiglia aveva contribuito a perfezionare e a reinventare quella che negli anni Settanta del secolo scorso fu l’uva Sagrantino, mi mise sotto gli occhi un bicchiere colmo per un quarto di un invitante liquido color rubino.
“Lo beva” ordinò.
Ah, la degustazione dei vini! Finalmente qualcosa in cui so di poter eccellere!
Lo bevvi. E in quell’aroma sentii il sapore dell’Umbria. Il cuore palpitante, confortante e caldo dell’Italia.
Bere quel vino mi aveva messo appetito. E quando, 90 minuti dopo, uscimmo dalla cantina, ci fiondammo in cucina per una “cooking class” (lezione di cucina) con Salvatore Denaro, lo chef canterino del vigneto. In certi momenti, lo vedevo rimbalzare dal lavello al forno con una puntatina davanti al tagliere, quasi fosse una palla da biliardo iperattiva, spargendo qua e là, come una polverina magica, piccole perle di saggezza culinaria. Questo siciliano trapiantato in Umbria, che è ormai divenuto una figura leggendaria a livello locale, è famoso per la sua capacità di improvvisare davanti ai fornelli. La carriera di Placido Domingo non sarà certo in pericolo, ma in compenso Denaro potrebbe insegnare qualcosa anche a un’istituzione come Le Cordon Bleu (una scuola di arte culinaria di fama mondiale, N.d.T.)
Benché il vigneto la definisca una lezione di cucina, in realtà si tratta di una vera e propria esibizione, con i presenti che, da dietro le quinte, osservano il maestro all’opera, prima di mettersi a tavola e divorare le sue pietanze. Per un attimo, lo vediamo versare il brodo di pollo per completare la cottura della pasta al dente, aggiungendo anche una miscela cremosa a base di burro e tartufi bianchi tagliati finemente. Un attimo dopo, eccolo trasformare un vinello dolce in una delicata salsa dessert, servendola a un’allegra tavolata mentre intona una melodia dal titolo “Vino, Vino, Vino”.
E in ogni boccone di questo cibo, in ogni sorso di questo vino, e in ogni risata che sgorga da questa tavolata, si imprime qualcosa di autentico.
Se questa è la Toscana dei poveri, forse è meglio non avere un soldo.