Sulle ali dell’utopia- Speciale Umbria
di Alessandra Mammì
Articolo finalista
TESTATA: L'Espresso
DATA DI PUBBLICAZIONE: 23 Febbraio 2012
È indiscutibile: l’Umbria è la meravigliosa terra affrescata da Giotto. La patria elettiva di Raffaello (urbinate di nascita ma umbro di formazione). La casa del Pinturicchio e del Perugino. La culla di un Rinascimento che andò persino oltre quello fiorentino e che è tema di tutti i manuali di storia dell’arte, tappa d’obbligo in tutte le guide.
Proprio per questo nella mini guida che segue non si consiglia la vista alla Basilica Superiore di Assisi, né quella alla Galleria nazionale di Perugia. Anche se solo il Polittico di Sant’Antonio di Piero della Francesca, tra tutti i capolavori che ci sono, vale il viaggio. Oltre la meraviglia e la bellezza classica, eterna e apollinea del Rinascimento, esiste anche un imprevisto spiritaccio dionisiaco che percorre la regione e partecipa dell’inquietudine contemporanea.
Dunque, oltre a cercar pace tra gli ulivi, l’Umbria offre variazioni di percorso, sorprese, visioni allucinate, dissonanze che magari non scalano i top ten delle guide. Una scorribanda fra i secoli, fra antico e contemporaneo, fra laico e religioso, fra capolavori nascosti in borghi sperduti e città ideali costruite dal niente. Per abbandonarsi a un viaggio in cui (grazie ai preziosi consigli dell’associazione Sistema Museo e di una storica dell’arte colta e curiosa quale Vittoria Garibaldi) non si incontrano solo pale d’altare, ma anche maestri del Novecento, teatrini rivoluzionari, foreste pietrificate e persino una vera mummia egizia di 2.500 anni fa che fu portata a Narni da un viaggiatore e lì rimasta. Vedere per credere.
La Scarzuola. Non era solo eclettico ed eccentrico, Tomaso Buzzi: artista, architetto, designer che fondò “Domus” con Giò Ponti, lavorò per i vetri Venini e divenne il più richiesto e visionario artefice di case e ville dell’alta borghesia nel boom economico. Era anche ricco. Abbastanza almeno per comprare nel 1957 un convento in un luogo sperduto dell’Umbria, dove - si dice - San Francesco nel 1218 costruì una capanna con una piantina lacustre (la Scarzuola, appunto). Da qui, il piccolo convento con cappella del XIII secolo in cui un affresco primitivo immortala il Santo in levitazione. Già questa è un’immagine bizzarra, ma niente a confronto di quel che riesce a costruire intorno il Buzzi.
Nel giro di pochi anni dal rudere spunta una città ideale, metà sacra e metà profana, piena di simboli esoterici e alchemici, scale e labirinti, mura turrite e gigantesche statue poppute, teatri e anfiteatri, vasche d’acqua con mosaici che grondano simboli e bassorilievi gonfi di mostri, centauri e sileni. Persino gli orti dei frati vengono trasformati in giardini cosmici, dove ogni pianta, che sia bosso o mirto, rimanda a un significato ermetico perché riviva fra queste frasche la storia d’amore fra Polifilo e la sua ninfa. Nel 1980 Buzzi muore senza aver completato l’opera, ma lasciando in eredità al nipote Marco Solari un progetto minuzioso dove si affastellano osservatori astronomici, pozzi di meditazione e templi pagani. Il nipote obbedisce, porta al termine la missione, convinto che quel luogo sia un labirinto dello spirito e un esperienza mistico-misterica da condividere con un pubblico motivato. Ma anche per gli spiriti laci, la Scarzuola merita una visita. Montegabbione (Terni). Per prenotazioni tel. 0763 837463. Sito: www.lascarzuola.com.
La Calamita Cosmica. È qui che finalmente ha trovato casa lo scheletrone di Gino De Dominicis che aveva inaugurato a Roma il museo MaXXI di Zaha Hadid. Una creatura di 24 metri di lunghezza e quattro di larghezza, che sembra caduta da un altro pianeta, almeno a dar retta a quel suo naso lungo a forma di becco di uccello. Opera monumentale tra le più impressionanti di quest’artista, filosofo, patafisico, mistico, immaginifico quanto basta a inventarsi un titolo come “Calamita cosmica”. La quale non poteva trovare una casa migliore: una settecentesca chiesa di Foligno nata per essere un trionfo di stucchi. Se il suo artefice, l’illustrissimo architetto Carlo Murena, non fosse morto a metà dell’opera. Finché il 9 aprile 2011 di fronte a sindaco, storici dell’arte, critici del contemporaneo, direttore della Cassa di Risparmio di Foligno che ha sovvenzionato l’intera operazione non si sono celebrate due rinascite. Quella della restaurata chiesa e quella della non più vagabonda creatura che praticamente la occupa tutta, regalandoci un cortocircuito visivo assolutamente unico. Chiesa della Santissima Trinità. Foligno.
Luca Signorelli “Storie degli Ultimi Giorni”. Con questo film catastrofico dipinto sulle mura della cappella di San Brizio, nel duomo di Orvieto, il Quattrocento umbro lascia il posto al Cinquecento, tra ansie, paranoie e patemi millenaristici tipici di ogni inizio secolo. È la fine del mondo dipinta senza risparmi né censure da un abile pittore che riuscì a strappare a quella star del Perugino la committenza degli affreschi, promettendo tempi rapidi e minor prezzo. Appena un anno dopo aveva finito le volte e in soli altri due aveva completato anche le pareti. Ma non per questo Signorelli stupì gli animi, fu piuttosto la messa in scena di un Apocalisse carnale e sanguinosa, dell’Anticristo identico a un tipico Cristo tranne il fatto che alle sue spalle un diavolaccio con le corna gli suggerisce all’orecchio le parole della predica, di immagini di corrotti e corruttori, prostitute e tesori da pirati, massacri, furti, guerre. Un diavolo vola via con una tonda e procace ragazza nuda sulle spalle, l’inferno somiglia a un’orgia, terremoti fanno crollare templi mentre maremoti sollevano navi sulla città, il cielo oscura il sole e la luna.
È un affresco vietato ai minori che consacrò il Signorelli come uno dei pittori più celebrati all’epoca. Tanto che Michelangelo lo studiò attentamente per il suo Giudizio della Sistina. Anche i romantici ne apprezzarono la teatralità, ma in tempi moderni (anni Cinquanta) fu ridimensionato al ruolo di illustratore sia pur di talento. Certo, rispetto a Michelangelo si perde nei dettagli, però questo suo “ Finimondo” di Orvieto è il primo vero “disaster movie” della storia dell’umanità. E noi post-post-moderni lo apprezziamo molto. Orvieto. Duomo.
Cappella di San Brizio. Il grande presepe. Ci sono paesi che nascono con una vocazione forte. I confetti per Sulmona, le fragole per Nemi e per Calvi invece, piccolo borgo in provincia di Terni, l’ossessione collettiva sono i presepi. Una vera fissazione, tutte le strade sono coperte di murales raffiguranti Madonna-San Giuseppe- Bambino-bue-asinello, tanto che Calvi occupa un posto d’onore nella Associazione Italiana Paesi Dipinti ( famosa soprattutto qui). Ma questa presepe-mania ha radici antiche. Nasce alla presenza di un’opera monumentale e spettacolare restaurata e riaperta al pubblico lo scorso dicembre. Un presepe di terracotta del XVI secolo attribuito ai fratelli Giacomo e Raffaele da Montereale e formato da 30 statue a grandezza naturale (qualcuna anche soprannaturale) disposte su più piani in una cappella con sfondi dipinti dove i Re Magi arrivano correndo su cavalli scalpitanti, gli angeli osannanti calano dal cielo tra svolazzi, la contadina con la cesta delle uova e lo zampognaro sfiorano l’iperrealismo, mentre la figura seduta con le gambe che pencolano nel vuoto intenta a togliersi una spina, per l’immaginario calvese rappresenta il diavolo che digrigna i denti contro la nascita del divino bambinello. Calvi (Terni). Chiesa di Sant’Antonio.
Teatro della Concordia. Si vanta di essere il teatro più piccolo del mondo (sarà vero?) ma oltre a essere una bomboniera da 99 posti, questo luogo è un simbolo della Rivoluzione francese (da qui il nome). Nato sul finire del Settecento per ospitare ed educare alle arti praticamente tutti gli abitanti di questo paesino arroccato fra i monti, fino alla metà del Novecento ha sempre funzionato mettendo in scena prosa e lirica. Dichiarato inagibile negli anni Cinquanta, è stato da poco riaperto dopo un lungo restauro, si è gemellato con quello che si dichiara essere il teatro più grande del mondo (Il Farnese di Parma) e ora offre ai turisti un pacchetto bizzarro. “Teatro del weekend” un tutto compreso di alloggio, spettacolo, cibo umbro e un profumo di Marsigliese nel foyer. Montecastello di Vibio (Perugia).
Fondazione Burri. Il più grande artista italiano del Novecento è anche l’uomo che più di tutti esprime la forza magmatica, l’energia primordiale, la fiera durezza degli uomini e del suolo dell’Umbria. Le sue plastiche bruciate dal fuoco, i cretti che si spaccano come terra al sole, i sacchi lacerati che arrivano da cultura contadina, hanno cambiato la storia dell’arte e nascono come il loro artefice da queste colline intorno a Città di Castello dove Alberto Burri ha voluto restasse la sua collezione tra due luoghi che ne condividono lo spirito. I 1.700 metri quadri di Palazzo Albizzini con la sua architettura quattrocentesca, dalla sobria e austera scansione umbro fiorentina. E l’area industriale degli “Ex Seccatoi del Tabacco” immensi hangar per i suoi grandi cicli pittorici. Visitare tutti e due significa entrare davvero nella casa e nel cuore di Burri. Città di Castello (Perugia). Per informazioni: www.fondazioneburri.org.
La foresta. Non è mano dell’uomo ma di madre natura. Fatto sta che la foresta fossile di Dunarobba è senza dubbio la più bella opera di Land Art sul suolo italiano (l’altra è il cretto che ha fatto Burri a Gibellina). Un paesaggio di sequoie giganti di oltre un milione di anni fa, dalle dimensioni imponenti: un metro e mezzo di diametro per una altezza compresa tra i 5 e 10 metri. Avigliano Umbro (Terni).
Palazzo Collicola. E anche qui bisogna riconoscere che il matrimonio tra il contenitore antico (palazzo del Settecento) e il contenuto contemporaneo ha prodotto ottimi risultati. Almeno da quando a dirigere questo piccolo gioiello espositivo è stato chiamato uno dei più scatenati e post-pop curatori nazionali: Gianluca Marziani. Il quale si è dimostrato molto meno scatenato del previsto. E da buon direttore ha allestito in modo eccellente la collezione di Giovanni Carandente che è il cuore del museo, ha utilizzato il patrimonio di spazi e suppellettili come interlocutore di opere di artisti giovani e giovanissimi, ha ospitato collezioni molto contemporanee, ha aperto un archivio biblioteca e ha trovato il giusto equilibrio fra memoria conservativa e ricerca presente. In pieno spirito umbro. Spoleto. Palazzo Collicola.