Piccola Pompei
di Marco Merola
TESTATA: Oggi
DATA DI PUBBLICAZIONE: 21 Aprile 2011
Altro che poverello di Assisi. Duemila anni fa la città di San Francesco era molto più profana che sacra, ricca di mercanti e di ville lussuosissime. «Gioiamo dell’amore nostro finché possiamo», declamava il poeta Properzio che qui era nato. I suoi versi allietavano banchetti e feste di ogni genere. Questa storia straordinaria ci viene ora raccontata da una splendida domus romana scoperta nel cuore del centro storico, in parte sotto Palazzo Giampé, sede del Tribunale e in parte sotto l’edificio dove si riuniva il comitato per la festa popolare del Calendimaggio.
Dopo aver varcato un’anonima porticina di servizio si comincia a scendere, nella penombra. Si va giù di sette metri rispetto al livello stradale, fino a incontrare quella che, a giusto titolo, è stata ribattezzata la «Pompei umbra». Il primo degli ambienti visitabili, anche se è l’ultimo ad essere stato liberato dalla terra, è un cubiculum, una stanza da letto sontuosamente decorata. A terra c’è un mosaico con disegni geometrici, oggetto delle amorevoli cure di Radu Zaharia, restauratore romeno di comprovata esperienza. Le pareti hanno colori decisi, bianche in cima, nere alla base e, al centro un rosso acceso, come se ne vede solo a Pompei, appunto.
Difficile, in assenza di una iscrizione o di un documento, dire a chi esattamente appartenne la casa, ma sicuramente fu gente di buon gusto e che aveva soldi da spendere. Forse, qualche commerciante della zona, di quelli che sfruttavano l’alto corso del Tevere per fiorenti attività di import-export. Sull’età della villa invece gli archeologi nutrono pochi dubbi, risalirebbe alla metà del I secolo d.C., quando a Roma imperava Nerone.
La storia dello scavo comincia nel 2001, durante i lavori di restauro e consolidamento della città a seguito del sisma che si era abbattuto sull’Umbria nel 1997 e aveva sbriciolato pure gli affreschi giotteschi nella Basilica di San Francesco.
Le autorità locali avevano deciso di dotare il Tribunale di un ascensore e così si cominciò a scavare per creare lo spazio necessario per la sua corsa.
«Gli operai si bloccarono subito, perché appena 50 centimetri sotto il pavimento dell’ingresso furono ritrovati degli stucchi provenienti da capitelli romani», spiega la dottoressa Maria Laura Manca della Soprintendenza Archeologica dell’Umbria. «Così iniziammo un vero scavo archeologico per vedere cosa c’era. Erano tre colonne altissime che facevano parte del giardino porticato di una casa molto grande. Una scoperta sensazionale».
Gli archeologi erano scesi molto in profondità, per raggiungere il pavimento dell’antica abitazione. Avevano calcolato che il peristilio, cioè il giardino, potesse avere cinque colonne sul lato lungo e tre su quello corto. Rimaneva da trovare le stanze che vi si affacciavano.
Nel 2002 individuano la prima, forse un soggiorno, mai adoperato dai padroni della domus che lo abbandonarono frettolosamente a causa di una perdita d’acqua dal vicino vano-cisterna. Poi, l’anno successivo, viene fuori il triclinio, dove i Romani erano soliti intrattenersi piacevolmente mangiando, conversando e facendosi servire da ancelle avvenenti. Lo spazio era decorato con grifoni e animali mitologici, tripodi, motivi architettonici a sfondo giallo e rosso, una gioia per gli occhi. Oggi, purtroppo, ci si entra con qualche difficoltà e si devono aggirare i sostegni in cemento armato sistemati per impedire il collasso degli edifici sovrastanti.
«Il palazzo del Tribunale e del Calendimaggio sono stati costruiti nel ‘600, proprio sopra la domus, ma poggiano sulla terra e non sui muri romani. All’epoca evidentemente nessuno si è accorto che sotto c’era una casa antica, altrimenti ne avrebbe smontato le pareti e le colonne per riutilizzarli. Da un lato è stata una fortuna, perché ne ha permesso la conservazione, dall’altro è un fatto negativo perché ci ha pregiudicato uno scavo completo. Se togliessimo fino all’ultimo granello di terra verrebbe giù tutto».
I soldi, come sempre, sono pochi, ma la domus è troppo importante e va riportata alla luce. Così, a cavallo tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, gli archeologi arrivano finalmente al cubiculum. La stanza da letto, regno dell’intimità domestica per eccellenza.
«Vi dormiva una donna, questa immagine nuziale è tipica di un ambiente femminile», dice la Manca, mostrandoci un quadretto dove si vedono un uomo ed una donna, sulla parete rosso fuoco di fronte all’ingresso, «e poi abbiamo trovato sul pavimento una gran quantità di fermacapelli».
L’impronta muliebre è ovunque. Un piccolo ciclo pittorico mostra quattro dame ben vestite che osservano silenziose una quinta donna intenta alla toeletta, con l’assistenza di un’ancella.
Immagini così perfette da essere degne del pennello di un impressionista dell’800.
«Sicuramente le maestranze che le realizzarono venivano dall’Urbe. Questo fa della Domus di Assisi un ritrovamento unico a nord di Roma». La signora della casa amava attorniarsi di oggetti sacri. Sulla soglia della stanza gli archeologi hanno trovato un piccolo altare in terracotta con una statuina, il Lararium, dedicato alle divinità (Lari) protettrici della casa. Appeso al soffitto doveva esserci l’oscillum rinvenuto in terra, spaccato in due pezzi. Era un grande talismano in marmo, a forma di mezzaluna, che oscillava al passaggio del vento. Gli agricoltori lo utilizzavano nei campi durante le feste rituali, per buon augurio. Divenne, poi, vezzo dei ricchi e oggetto di arredamento per le loro sontuose magioni.
La domus non finisce qui. Sui circa 500 metri quadrati abitabili che girano intorno al peristilio insistevano altri ambienti che però si trovano al di sotto di un terzo edificio, il Palazzo del Cardinale, alle spalle di Tribunale e Calendimaggio.
Il sogno degli archeologi sarebbe creare un collegamento sotterraneo per permetterne la fruizione integrale ma vi si oppongono esigenze di sicurezza. Per gli ospiti moderni, dunque, niente “giro della casa” di cortesia, con buona pace della gran signora che vi abitò.