Prelibatezze umbre
di Igna Vaisla
TESTATA : Vip Lounge
DATA DI PUBBLICAZIONE: gennaio-febbraio 2010
Umbria… Verde… Silenziosa… Meravigliosa… Collinare… Bella… Antica… Divina… Aristocratica, ma allo stesso tempo semplicemente contadina e in tutto questo molto genuina e arcaica. C’è solamente da stupirsi di come abbia fatto a conservare la propria anima in quella purezza immacolata, in confronto alla quale la Toscana sommersa dai turisti può sembrare un cartellone pubblicitario, e dove persino il colore del vino ha la sua preziosità. Ma se siete interessati ai valori autentici, al ricordo di quale fra le tante “fissazioni culinarie” – ebbene sì, fra le tante! – possa divenire la vostra, tutto ciò lo trovate in Umbria, nel cuore dell’Italia!
Immaginate il sapore tenero della lenticchia dalla polpa succosa che, per l’estasi, vi costringerà a chiudere gli occhi e pronunciare, dentro di voi, scandito in sillabe: Cas-tel-luc-cio… In questo remoto paesino “sperduto” sugli Appennini, dall’aspetto non compromesso dalla civiltà, dove per tradizione le pareti delle case fungono quasi da giornali per dare le ultime notizie, vivono 15 milionari che accumulano ricchezze grazie alla coltivazione dei legumi. Le squisite peculiarità delle prelibate lenticchie di Castelluccio IGP non sono tanto determinate dai condimenti aggiunti al piatto, quanto invece dal clima di alta montagna (del resto siamo sugli Appennini!) e dalle caratteristiche del suolo calcareo. Non si può trascrivere la ricetta, ma bisogna impararla a memoria per tutta la vita, come le tabelline.
La lenticchia di Castelluccio si fa lavare (e non macerare!) in acqua per due minuti per poi lessarla immergendola in acqua bollente per altri venti. In seguito, la si toglie dal fuoco e si aggiunge olio d’oliva direttamente nel piatto, nella broda fragrante. È semplice, ma vi farà sentire in paradiso!
Sembra che in Umbria tutti sappiano fare l’olio d’oliva! Beh, più o meno tutti. La sua qualità dipende non solo dal terroir, ma anche dall’esperienza del produttore e dallo stile da lui scelto per la miscelazione delle tre varietà di olio d’oliva prodotte nella zona: il Moraiolo, il Frantoio e il Leccino. Qui si produce solo il Moraiolo. L’azienda agricola situata nelle vicinanze della pittoresca città di Spoleto e appartenente alla Villa della Genga è una piccola struttura rifinita che all’aspetto ricorda un garage ben curato. Lì vicino si trova il pendio di una collina coperto da lunghe file di ulivi dai quali vengono raccolte le olive per il Moraiolo, una varietà di ottima qualità dovuta all’alto contenuto di polifenoli. Il proprietario del frantoio, presentatosi semplicemente come Filippo, è un giovane intelligente, con una divisa del tutto simile a quella degli altri operai, dallo sguardo assorto e dai modi cortesi.
Qui si produce un olio d’oliva particolare, la cui spremitura avviene senza il nocciolo, il che dà all’olio, secondo Filippo, un gusto molto amarognolo. Il risultato è un prodotto DOP di alta qualità, equilibrato, biologico e puro, con un elegante aroma di carciofo, pomodoro e mandorla. Lo si può gustare col pane, in particolar modo quello umbro insipido, leggermente abbrustolito al fuoco e con un pizzico di sale… Oh, è un sapore da provare almeno una volta nella vita!
L’olio d’oliva, prodotto qui in quantità non molto elevate, giunge direttamente nei migliori ristoranti gastronomici di Londra.
Risalendo il sentiero che conduce verso l’alto, vi ritroverete nella Villa della Genga. Una volta spalancati gli archi in pietra del portone… ah! Di fronte a voi avrete un palazzo costruito nel XVI secolo! La parte davanti è coperta da un giardino all’inglese curato con grande maestria, mentre sullo sfarzoso ingresso principale è ben visibile il grande stemma di famiglia.
– Dovete sapere, – ci spiega l’interprete – che il signor Filippo è il marchese Filippo Montani Fargna, discendente diretto di Annibale Sermattei della Genga, meglio conosciuto come papa Leone XII. Ebbene sì: la storia continua…
Norcia. Città natale di San Benedetto, attuale patrono ufficiale d’Europa. 5000 abitanti e fino a 35000 turisti all’anno. Passeggiare di sera per le antiche stradine con Gian Paolo Stefanelli, sindaco della città, è come camminare con il padre di una grande famiglia o con il direttore di una scuola materna. L’impressione è che, in città, il sindaco sia legato a tutti quanti per intima amicizia o lontana parentela: si ferma per scambiare un paio di frasi con qualche passante, rimproverare benevolmente un gruppo di scolari che se ne sta in giro fino a tardi, dare un abbraccio alla nipote che accompagna la nonna, rispondere a un saluto oppure a una battuta fatta da qualcuno.
La nostra destinazione, secondo il sindaco, è il miglior negozio di Norcia dove vendono, sempre secondo lui, le migliori prelibatezze della città: il Prosciutto di Norcia IGP, una quantità innumerevole di vari tipi di salsicce, salami, la Corallina di Norcia, i Coglioni di Mulo Brancaleone da Norcia, in mezzo ai quali troviamo un lardo saporitissimo, e la Fiaschetta del Prete.
Avendo saputo che gli acquisti non si ridurranno al solo prosciutto, l’arzillo venditore dall’aspetto bonario ci invita a scegliere almeno uno tra i venti prosciutti di Norcia rinomati e stagionati appesi a un dispositivo di legno. All’immaginazione di un buongustaio, il loro aspetto pittoresco si presenta come qualcosa di simile a un aperitivo.
Segue poi il rituale: il venditore elogia la scelta, quindi con un ferro sottile di legno infilza il prosciutto in tre parti vicino all’osso e annusa l’aroma che si diffonde.
– Bene! – dice e mette il prosciutto sul bancone, lo pesa e lo avvolge accuratamente. Se non fosse per l’ambiente del negozio, si potrebbe anche pensare che nell’incarto ci siano dei fiori.
– Desidera qualcos’altro? Provi questo – continua a dire e taglia uno dei salami in fettine sottili. Da questi dischetti rossastri ne deriva un aroma indescrivibile, mentre in bocca si diffonde un sapore denso e sfumato, morbido ed elastico, dalla consistenza un po’ viscosa che, come il sapore del celebre Prosciutto di Norcia, possiede una punta di salmastro (un po’ più spiccata rispetto al Prosciutto di Parma e al San Daniele), accompagnata straordinariamente bene da una leggera nota gradevolmente pepata.
– Vi piace? È buono come il viagra! – dichiara il venditore con l’aria di chi se ne intende. Forse come il viagra o forse come un dono del cielo. A ciascuno il suo.
Generalmente, nelle altre regioni d’Italia gli abitanti di Norcia vengono chiamati macellai. Perché? Andate a cercare la risposta a Norcia!
Il farro! Il frumento più antico, insignito della certificazione DOP, che si conserva sin dall’epoca dell’impero romano. Testimonianza della sua antichissima origine sono i chicchi ritrovati nelle tombe dei faraoni. Sembra addirittura che il farro fosse un elemento presente nelle ricette a base di zuppa di cereali degli antichi greci e romani.
È un frumento che non dimostra la minima traccia di “miglioramento” genetico. La sua naturale purezza antica e il procedimento di coltivazione esclusivamente biologica (800 quintali l’anno, una quantità niente male per i canoni del luogo!) possono essere paragonati al suo purissimo sangue “blu” aristocratico. Il seme grosso, di unica grandezza e dall’aspetto salutare, possiede una certa forza magnetica tanto che, prendendone una manciata di chicchi, sembra quasi impossibile tirar fuori la mano. Al contatto si sente un afflusso di energia e di forza radiosa, come provenisse da qualcosa di vivo e cosciente.
In Umbria, il farro viene coltivato da tempo immemorabile nel remoto paesino di Monteleone di Spoleto dove ci si arriva percorrendo strade a spirale che si avvicinano al cielo e all’infinito celeste.
Il terreno è povero, d’alta montagna. Praticamente arido. Gli inverni sono terribili. Qui, nell’entroterra umbro, gli abitanti coltivano il farro con cura e devozione, quasi fosse un vero e proprio erede reale.
Ovviamente, con la farina di farro si fa il pane, senza sale perché non gli serve. Gli bastano solo il farro e i suoi privilegi. Tra l’altro, a Monteleone di Spoleto, dal loglio del farro si ottiene l’imbottitura dei cuscini: pare che sia ottima per dormirci.
Lo zafferano e Cascia, piccola città medievale nella parte orientale dell’Umbria, sono due concetti inseparabili, come Cascia e le reliquie miracolose di Santa Rita. Quando e da chi venne portata a Cascia questa pianta bulbosa rimane un mistero. Al contrario, si sa per certo che la qualità dello zafferano locale, grazie al suolo sassoso in grado di assorbire molta acqua, è di gran lunga superiore a quella coltivata in Africa e Arabia.
La raccolta avviene tra ottobre e inizio novembre, allo spuntar del sole, affinché il preziosissimo polline arancione possa conservare intatte le proprie straordinarie peculiarità. La grandezza dello zafferano è praticamente misurabile in base alla sua effimera “ponderabilità”: per un grammo, è necessario raccogliere 200 fiori. E per averlo, bisogna pagarlo 40 euro.
Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, l’atmosfera nella piazza del mercato della città, invasa da turisti e stracolma di tutti i tipi di manicaretti, per tradizione si riempie dell’attesa dell’Evento: la Mostra Mercato dello Zafferano di Cascia.
Le condizioni di partecipazione sono semplicissime. Entro due settimane prima dell’inizio della mostra, bisogna presentare la richiesta che dà il diritto a ricevere il biglietto (gratis!) nel giorno suddetto e di assaggiare piatti nobili a base di zafferano nei più bei palazzi e nelle sale di Cascia. Il viaggio da un luogo storico a un altro (e qui non c’è niente di semplice!) per le strette stradine medievali della città è un piacere a sé stante. Non c’è la minima traccia di civiltà moderna. Un altro mondo, un altro tempo!
Ora siamo negli antichi interni della storica e inestimabile Biblioteca di Cascia. “Masticate lentamente – ci consiglia il “presentatore”, non appena un’artista del posto pone sui piatti la tradizionale omelette al radicchio e zafferano, mentre un giovane sommelier versa nei calici un Trebbiano Spoletino bianco fatto con grande abilità. – Dovete assaporare tutte le peculiarità aromatiche e gustose di questo piatto. E dovete assolutamente prestare attenzione ai raffinati interni. Bisogna mangiare in luoghi bellissimi!” A giudicare dai volti ammaliati di un gruppo di turisti americani silenziosi, senza dubbio non hanno alcuna intenzione di obiettare.
Nell’aristocratica città di Trevi, nel corso dei secoli, i frantoi sono stati ricostruiti praticamente in ogni casa; la ricerca dei tartufi, invece, è rimasta uno stile di vita immutato per ogni abitante del luogo. Vicino alla città c’è un borgo, Pigge di Trevi, che, per dimensione, ricorda una grande tenuta con i negozietti di tartufi e funghi tipici di questi luoghi. Lì sembra che sia possibile acquistare tutto ciò che abbia a che fare con i tartufi: il pane fatto con una particolare cottura, il formaggio, il salame duro, infiniti tipi di pasta, l’olio d’oliva, il riso aromatizzato al tartufo, ecc.
Tuttavia, i più interessanti “oggetti esposti” in questa boutique sono quelli freschi messi in vendita, ovvero lo scorzone nero (100 euro al kg) e il tartufo bianco (700 euro al kg), per l’esattezza non del tutto bianco, ma piuttosto un tubero grigio chiaro!
Generalmente i tartufi non si distinguono solo per il prezzo. Per esempio:
- lo scorzone nero possiede una superficie ruvida, mentre quello bianco è liscio;
- i tartufi neri vengono raccolti dall’ultima domenica di maggio fino al 31 agosto, mentre quelli bianchi dall’ultima domenica di settembre al 31 dicembre;
- il tartufo nero ama il terreno asciutto, quello bianco invece si può nascondere persino in luoghi paludosi, presso fiumi e bacini d’acqua;
- infine, il tartufo nero non disdegna affatto il trattamento termico, mentre quello bianco si trova a suo agio esclusivamente all’aria aperta.
La padrona del negozio, come abbiamo scoperto in seguito, oltre alla licenza per la raccolta dei tartufi e a due bastardini appositamente addestrati e dotati della rispettiva certificazione (i cani di buona razza, stando alle sue parole, non sono adatti a questa raccolta perché danneggiano i funghi e i miceli), possiede anche un proprio terreno da tartufi. Eppure, non bisogna pensare che ciò le dia il diritto, seppur minimo, di rinunciare ai “periodi di raccolta”, di darsi a quest’attività dopo il tramonto (è vietato!), di farlo in luoghi dove la quantità minima di tartufi non raggiunge i due chili per ettaro o addirittura di venderli dopo la fine della stagione di raccolta. Il tartufo, considerato patrimonio nazionale, trova i suoi adepti in veri e propri organi con i quali è meglio non avere niente a che fare. Il minimo di multa per una qualsiasi mancanza o disordine è di 500 euro. Per una trasgressione più considerevole è previsto il ritiro del certificato che viene rilasciato solo una volta nella vita previo superamento degli esami. E se i classici culinari umbri sono i tartufi freschi da cospargere sulla pasta fresca, sulla carne e sulla trota alla griglia, allora il bestseller è l’omelette ai tartufi! La migliore è quella servita al ristorante Villa Maria, vicino alla bellissima Spoleto!
Il tartufo non ha odore, non profuma. Il tartufo è fragrante ed ha una fragranza, senza alcun dubbio, divina!
Indescrivibile e inspiegabile, deciso e distinto, non per niente il tartufo si è reso noto nell’ambiente enogastronomico con il nome “aroma di tartufo”. Dal calore dei gambi dei funghi (ma sono funghi?), si diffonde un’essenza che non ha eguali in natura, il cui aroma si può trovare soltanto nel vino stagionato e molto costoso. I cercatori di tartufi la definiscono il linguaggio particolare del tartufo. Comprenderlo, o anche semplicemente CERCARE DI COMPRENDERLO, è impossibile senza aver fatto un inchino a questa straordinaria opera della natura.
Un inchino al tartufo e all’Umbria che gli ha dato origine!